Si può dire? Roberto Saviano da tanto tempo ha iniziato la sua parabola in discesa. Tutto il mondo lo ha apprezzato in Gomorra, il libro, non la serie televisiva né il film. Ebbe il raro merito di tradurre in versione letteraria una miriade di piccoli e grandi episodi legati alla camorra organizzata di Napoli e di portarli alla conoscenza di tutti in dimensione di narrazione.
L’operazione descrittiva della cifra nel fenomeno delinquenziale napoletano stava nel rendere di accesso comune molti fatti di cronaca di cui avevano parlato precedentemente coraggiosi giornalisti a Napoli. Si tratta di fatti, episodi criminali, ma anche vicende curiose come il saluto furtivo del soggetto a giudizio nei confronti del proprio giudice. Tutti fatti documentabili e documentati ma che Saviano non aveva citato pedissequamente, come dovrebbe essere d’obbligo per un giornalista. Ma – si dirà – non per uno scrittore che ha diritto di prendere liberamente ispirazione da fatti e farli proprio per la narrazione.
E così fece Roberto Saviano e la scommessa editoriale funzionò. Roberto Saviano da giovane redattore de Il Manifesto divenne un importante scrittore a cui si deve la conoscenza dei fatti di camorra. (Interrogativo a parte dovrebbe essere dedicato al fatto che la tematica incontri sempre più i favori dei consumatori di emozioni letterarie. Solo che qui non stiamo parlando de Il Padrino e o di Goodfellas. Si parla di fatti veri e di crudeltà accadute veramente sulla pelle delle persone).
Ma sarebbe inesatto dire che di qui partì il film e la serie. Chi vive nel mondo dell’editoria sa perfettamente che queste operazioni fatte da libro, film e serie, sono decise a tavolino e sono congeniate come ottimo affare dei signori che decidono chi, come, quando e quale risonanza dare al testo pubblicato. Si fiutò che la questione poteva trovare grande risalto e così fu.
Bene per l’editore, bene – in un certo qual modo – per la notorietà di Roberto Saviano. Tutti sappiamo che vivere di scrittura non è facilissimo ed è importante quando una nuova firma si pone all’attenzione del mondo.
Detto questo scattarono le notizie sulle intemerate minacce di organizzazioni camorristiche. “Sandokan”, questo è il temuto soprannome di Francesco Schiavone (esponente della malavita organizzata partenopea) pare lo raggiunse con messaggio di minaccia. Di qui, la scorta, quindi l’aumento della sua popolarità. Ma anche gli accenni di repressione ai suoi discorsi hanno accentuato questa immagine del giornalista scomodo.
Non si capisce bene però come faccia Roberto Saviano, da circa venti anni sotto scorta e intralciato in ogni libera azione, a scrivere di fatti criminali anche al di fuori dell’Italia, in tutto il mondo, avendo una vita fortemente limitata. È possibile solo avvalendosi del lavoro di tanti, tanti, altri valorosissimi giornalisti che scrivono e riportano. Il lavoro di raccolta di notizie per darne una sintesi e una chiave di lettura fa pure parte del lavoro di un giornalista. A condizione però che il giornalista citi sempre le sue fonti. Altrimenti pare che abbia inventato i suoi riferimenti fattuali oppure siano prodotti del suo lavoro – cosa che non è possibile data la sua vita negli ultimi venti anni.
Sono elementi che hanno finiscono per rendere il messaggio dello scrittore-giornalista un poco equivoco e buono solo per gli ingenui. Sono elementi che finiscono per deteriorare l’interesse dell’autore dal punto di vista dell’editore che ne fiuta la consunzione come rapporto alle vendite. Lo so. È molto triste. Ma questo mondo è così e non l’ha inventato né l’editore, né Saviano, tantomeno chi scrive.
Sono questi i motivi per cui probabilmente Roberto Saviano non era stato selezionato tra gli scrittori della kermesse letteraria tedesca. Ma l’averlo escluso dà forza a Saviano. Tutti crederanno che si tratta ancora di un autore scomodo che il potere non vuole come voce. E invece per farsi sentire deve lanciare epiteti al premier con il limite, però, di non fare cosa molto originale. Oramai.