La maggioranza dei delegati è già con lei. La nomination del Partito Democratica è praticamente sua. Ha così iniziato la sua marcia nel luogo di concentrazione in Delaware iniziando a stilettare il suo rivale Trump.
E l’individuazione del nemico in Trump comincia ad affermarsi come motivo principale della sua campagna elettorale, certa della condivisione degli americani che potenzialmente potrebbero votarla. Il problema è che questo gli consente di fare una campagna elettorale col favore della rimonta e della novità per non pronunciarsi esattamente su nessuno dei temi cruciali.
Ed inizia la corsa che ha assunto i tratti della gara. Non c’entra più la speranza di risollevare la testa dell’Occidente sorpassato dall’economia della Cina. Non contano i due conflitti in pieno svolgimento e tutti da dirimere con una mediazione ancora inesistente. Non conta l’inanità dell’Unione Europea che sa solo farsi scudo davanti alle colonne erette dal gigante americano.
Ma guardata dal punto di vista degli europei, la guerra che stabilì dei rapporti di forza oramai è un ricordo di ottanta anni fa e gli Stati Uniti da tempo non possono garantire un ordine mondiale in grado di garantire i suoi alleati, quindi la democrazia, quindi la cultura liberale, quindi il nostro comune intendere l’esistenza e la società.
Queste cose pare non siano minimamente in gioco. Il gioco è la gara tra due personaggi improbabili. E il pubblico occidentale degli aficionados dei media resterà appeso a guardarsi l’esito di questo grande scontro.
Kamala al momento è sotto di appena l’uno per cento. La percentuale dei due nel sondaggio Cnn, fatta una media ponderata, è di quarantotto per cento contro il quarantasette per cento. Niente se si considera che Kamala Harris la campagna elettorale non l’ha ancora iniziata per conto suo. I notiziari la danno attaccata al telefono per chiedere ulteriori risorse ai grandi elettori del partito democratico.
Poi dovrà parlare. Convincere tutti i democratici e dopo tanti americani indecisi a votarla. Al momento, va detto, gode anche del beneficio che si dà agli esordienti. Kamala Harris è la novità. Le attenzioni sono su di lei. Inutile per Donald spararla grossa per rubargli il centro dell’attenzione. Questo giro è il suo.
Ma è qui che iniziano anche i dolori per lei. Perché verrà rovistata la sua biografia come mai prima.
“Sono onorata”. Sono le prime parole che ha detto. E vorrei ben vedere, ci sarebbe da risponderle. Ma è anche vero che l’imprimatur accettato dal gran capo Biden non è conseguente alla delicatezza con cui le lo ha trattato in passato.
Kamala ha sessanta anni. È nata a Oakland, in California. Più che una vice è stata un’ombra. Laureata ad Howard, ha gradevole facondia ma le manca quella facoltà psicagogica di entrare nella testa di chi l’ascolta per lusingarne le aspettative. Nel 2016 diventa senatrice, viene da esperienza da procuratrice di San Francisco. Come concorrente di Joe Biden la si ricorda quando ricordò a quello che sarebbe diventato presidente degli Stati Uniti di aver collaborato con due senatori segregazionisti negli anni ’70. Ha inveito ancora contro quel povero vecchio ricordando la sua infanzia in una famiglia modesta in cui ha potuto conoscere il riscatto dalla sua posizione iniziale grazie al servizio di scuolabus istituito per le minoranze che vivevano nei quartieri più disagiati. Ed era un servizio che il senatore Biden non voleva.
Forse Biden la volle al suo fianco per l’antica regola di avere il nemico sotto controllo. Ma al momento c’è il boom di donazioni. Ha mosse in poche ore 46,7 milioni di dollari e in un aggiornamento sono stati dichiarati 250. E i soldi sono il valore principale negli Stati Uniti. Solo che non si traducono meccanicamente in voti.