Ottaviano Del Turco è una di quelle personalità importanti, preminenti, ma che non ebbe il favore dei grandi riflettori. Non evidente ai grandi protagonisti della nostra storia, lo è stato, invece. E molto.
Lo è stato in virtù della capacità di mettere a sistema la necessità del governo per un soggetto progressista legato alle grandi questioni sociali del nostro paese. Una questione che in Italia è rimasta eternamente involuta nelle secche dell’ideologia, ma anche dell’ipocrisia. Da una parte la tensione verso grandi questioni di cambiamento radicale dall’altra la necessità di prendersi carico dei problemi reali del mondo del lavoro. Tutto questo tra surrettizi condizionamenti legati a strategie oblique filosovietiche e il dovere di addivenire a patti con la realtà concreta abbracciando il blocco storico del moderatismo democristiano.
Il tutto nel tentativo di governare spinte endogene di protagonismi personali e di facili spinte all’affermazione puramente personalistica. La messa a sistema di tutto questo è stata la chiave di volta di una personalità come Ottaviano Del Turco, distintosi in attività sindacale come minoranza dell’organizzazione comunista dei lavoratori e poi come presidente della Regione Abruzzo.
Se n’è andato a settantanove anni. Era ammalato da tempo, prima di una forma cancerosa e poi di Alzheimer. E dimenticare i torti sopportati da dieci anni di processi a suo danno è stato forse il modo in cui il destino, non generoso con lui, ha alleviato i suoi ultimi anni.
Se n’è andato nella notte tra il 23 e il 24 agosto. Viveva a Collelongo, piccolo comune abruzzese in provincia de L’Aquila. E la difficoltà di trattare lo spessore della sua persona sta tutto nella vicenda giudiziaria, impossibile da non menzionare per completezza di cronaca, ma mefiticamente offuscante per la sua identità di uomo politico.
IN breve diremo che, arrestato nel 2008, si pose fine, di fatto, alla sua carriera politica. Era presidente della Regione Abruzzo. La gogna mediatica e quella del sospetto non lo risparmiarono mentre doveva preoccuparsi di combattere per le sue condizioni di salute. Dieci anni dopo la sentenza della Cassazione lo condannò definitivamente a tre anni e undici mesi. La sentenza era motivata dall’accusa originaria di induzione indebita.
Illustri giuristi – in testa a tutti l’avvocato Gian Domenico Caiazza – insistono nel dire che quella contro di lui fu il classico caso di “errore giudiziario”. Ne rimase intaccato nel morale come nello spirito. Il resto lo fece la malattia. Sempre secondo Caiazza invece Del Turco aveva semplicemente tolto la ghiotta prebenda delle cliniche abruzzesi che scaricavano indebitamente il costo di prestazioni sanitarie sul sistema pubblico.
Ma è assai più rispondente quella dell’uomo del riformismo italiano, una delle storie più controverse della vicenda politica del nostro paese. E Del Turco ne è emblema. Entra come sindacalista nell’anno della grande contestazione: il 1968. È di cultura socialista e entra nella federazione dei metalmeccanici, la Fiom, una mosca bianca. Quindici anni dopo sta vicino a Luciano Lama nella Cgil, altro soggetto di caratura Pci. Insieme a lui figure storiche come Antonio Pizzinato e Bruno Trentin.
IL sindacalista si mette in discussione ed entra nell’agone politico. L’identità socialista è stata falcidiata da Tangentopoli. Lui si carica sulle spalle il Partito Socialista Italiano. Ma non ce la fa. Mesi e mesi di falcidia mediatica disperdono le varie soggettività che trovano ricovero in altre case politiche o si ritirano a vita privata.
Ottaviano Del Turco non demorde. Nel ‘94 è presidente della Commissione Antimafia. Nella legislatura successiva diventa ministro delle Finanze. E dopo, nel 2004, è eletto al Parlamento europeo. Il suo difficile compito è quello di tenere le fila della messa a sistema le ragioni sovrane del pragmatismo teso a governare gli interessi reali e d’altra parte, tenere alto il lume del riformismo illuminato.
Nel 2005 è eletto presidente nella Regione Abruzzo. In questa esperienza le due grandi matrici della cultura socialista assimilata da giovane debbono essere messe a sistema. Ma è proprio questa esperienza che ha fine nelle modalità menzionate. La sua è la sconfitta di una cultura politica: la necessità di coniugare pragmatismo e grandi obiettivi di governo che vadano a sostegno della società reale. Ma sconfitta in circostanze sempre diverse, pur aventi tutte la stessa denominazione di origine definibile attraverso l’ostruzione di logiche nemiche le quali vogliono soggetti puramente a loro servizio oppure soldati legati a un blocco storico di determinazione legata sempre a un antagonismo strategicamente determinato.
La sua figura sarà ripresa, menzionata, recuperata, come occasione di ripensamento di una storica politica e tutta tesa alla continua riscrittura della Storia. Nel frattempo il saluto a un suo protagonista.
Gli sia lieve la terra.