Un nuovo piano Marshall per l’Europa. Anzi due. In sostanza si tratta di ottocento miliardi di euro l’anno. Mario Draghi si è fatto i conti e dice che sono questi gli investimenti per rilanciare l’obsoleta industria Made in Europe. Ma è un versante che Francia e Germania, a cui è principalmente rivolta l’indicazione strategica, non vogliono recepire.
Questi soldi dovrebbero essere investiti sulla svolta verde del pianeta produttivo, sulla capacità di produrre armi di alto profilo tecnologico, di riuscire a dare alle imprese modo e maniera di essere competitivi nel mondo. Adesso non lo sono più. Diciamocelo. Prima che la condizione diventi irreversibile e si vada verso un declino senza soluzione bisogna reagire con questa grande cura. I competitor negli Stati Uniti e in Cina non fanno prigionieri.
Tutto questo, sempre in grandi numeri, significa il cinque per cento del Pil europeo.
Sono cose che se dicesse un qualsiasi articolista e commentatore passerebbero quasi inosservate o verrebbero relegate al lamento di una prefica. Dette da Draghi hanno risonanza ben diversa. Fanno discutere, sconquassano. Anche perché obbligano a un’accelerazione che si pensava avvenisse gradualmente in questi anni ma che non è avvenuta. Quella degli Stati Uniti d’Europa e della possibilità di creare un Bond europeo, come avvenne in estremo durante l’emergenza del Covid.
Mario Draghi ha presentato il rapporto sulla competitività a Bruxelles davanti a Ursula von der Leyen. Doveva essere un documento tecnico ma getta le basi per le politiche europee del futuro. Se vorrà essere recepito.
“Crescita” è la parola guida. Ma non è un dogma. Bensì trattasi di direzione normativa in grado di farci sostenere i nostri modelli di democrazia e libertà. Perché senza la crescita c’è inevitabilmente involuzione, quindi chiusura in tutti i ceti sociali e ritorno a logiche di arroccamento identitario. In sostanza quello che già stiamo vivendo in tutta Europa dove la normalità del sopravanzare delle destre oltranziste costringe i restanti ad accorpamenti impropri.
Ma si riscontrano anche le resistenze extra-ideologiche dei paesi frugali (Olanda e Germania). E allora l’avversario non si può riscontrare ovviamente solo in Cina e Stati Uniti. Siamo noi europei gli avversari di noi stessi. Comprese quelle tendenze alla “decrescita felice” oppure al pietismo europeista per chi vive di sensi di colpa nei confronti del passato remoto e non coglie la prospettiva di altre aree di crescita come invece fa con molto successo la Cina.
In sostanza il discorso duro e lapidario di Mario Draghi a Bruxelles dovrebbe contenere un altro capitolo con una indicazione del nemico assai più allarmante. Il nemico siamo noi stessi. E ne abbiamo diversi in casa (oltranzismi nazionalisti, chiusure anti-industrialiste, steccati ideologici che si fermano ai propri confini) per non doverci allarmare in modo mirato.