Quando si dice: entrare di testa nei problemi. Lo ha annunciato il presidente prossimo all’ingresso in Casa Bianca, Donald Trump, lo ha reso esplicito con una dichiarazione di intenti il generale Keith Kellogg che prenderà le redini della supervisione presidenziale sulla scena strettamente militare. Kellogg, forte della sua esperienza in Vietnam ed Iraq, ha parlato senza perifrasi. Intende aprire un tavolo negoziale.
A parlar chiaro si va! Finalmente tanti avevano cincischiato inutilmente di pace in merito del conflitto ucraino ma nessuno aveva preso posizione in modo autorevole e certo. Nessuno perché nessuno ha la faccia per poterlo fare ed insieme l’autorevolezza come l’insindacabile autonomia rispetto le parti.
Kellogg ha chiarito subito le regole di ingaggio. Lui dà un luogo e un appuntamento chiaro a entrambi i contendenti. Ma c’è un “però”. Se il Presidente ucraino dovesse essere riluttante non avrà più neanche un fucile scarico dal blocco occidentale. Se non si dovesse presentare Putin gli americani raddoppieranno armi e investimenti in Ucraina. A parlar chiaro si va.
Chiaro è che una posizione così forte e solenne solo gli americani possono permettersela. Chiunque altro farebbe ridere. Al di là del machismo espresso a parole la dichiarazione di intenti vuole essere chiara, determinata, evidente nell’individuare una finalità che non può essere derubricata.
Sedersi al tavolo. Trattare. E in questa posizione, ma solo in questa posizione, prendere e lasciare. Da sottolineare la congiunzione che deve far parte delle prerogative di una vera trattativa. Si esclude ogni aut aut da parte di ciascuno dei contendenti.
IN questa nuova scena c’è la presenza di un altro fatto che comporta il convitato di pietra in questo tavolo. L’assassinio del generale Kirillov a Mosca porta l’Ucraina al tavolo in una condizione di preminenza. E allora l’altro interlocutore deve rendere pan per focaccia onde ristabilire un piano equo. Oppure sacrificare l’immagine e la memora del generale russo per chiudere questa partita prendendo il meglio che può arrivare in termini di acquisizione territoriale, prendendo anche atto della crisi evidente di leadership del presidente Putin. C’è da contare anche il sentiment generale diffuso in Russia. Un paese dai molti volti e tra questi un orgoglio nazionale condiviso e poco conosciuto in Europa. I russi vogliono sentirsi vincitori in questo conflitto. Nessuna posizione di ripiego potrebbe essere mai tollerata.
La tregua a cui consegue la pace, se non raggiunta con piena soddisfazione territoriale, comporterebbe la fine del sogno di predominio putiniano. Una sentenza difficile da digerire nella nomenclatura della vecchia Unione Sovietica così come nell’attuale Russia.
E allora la scena teatrale potrebbe vedere il trionfatore di tante campagne militari, Keith Kellog, ritrovarsi al tavolo da solo e ammazzare il tempo giocando a Risiko coi suoi luogotenenti. Si vede Kellog pensare a una guerra fondata sull’onore e sulla persistenza pervicace del senso di identità tra le parti. E proprio su questa consapevolezza dell’altro, ciascuna delle due, riconoscere all’altra il crisma dell’esistenza, contro ogni sindrome di morte presente nell’idea di guerra. Ma questo è un finale buono anche pensando al fatto che Putin e Zelensky si presentino.