Le iniziative diplomatiche sono in grande attività. Ma proprio per questo non lasciano trapelare niente delle dinamiche mosse, oltre al fatto che l’ambasciatrice è andata a fare visita a Cecilia Sala e tra le due c’è stato un abbraccio che vuole simbolizzare la stretta di ogni italiano verso la connazionale arrestata a Teheran.
Il silenzio su quanto si sta facendo e sulle personalità che si mobilitano per la sua liberazione è un fatto dovuto: nel caso prevedibile di ottenere soddisfazione dalle trattative, la liberazione non deve mai apparire come un cedimento delle autorità locali alle nostre autorità.
Quando si fa questo mestiere, specialmente quando ci si trova in altri contesti, la prima regola da preservare consiste sempre nel rispettare la struttura culturale, le regole, gli stilemi, oltre che chiaramente le leggi, di quel luogo. Mai cercare di fare i furbi né inavvertitamente apparire come tali. Il rischio di ogni occidentale in quel luogo è quello di mostrarsi nell’arroganza di invasori. Si tratta sempre di retaggio e di rispetto per una realtà totalmente diversa dalla nostra.
La difficoltà consiste nel fatto che molto spesso non ci si accorge di violare delle regole. È successo con l’incidente alla troupe dell’inviata Rai Lucia Goracci che è costata la vita ad un operatore. Stesso copione con altro rapimento due anni fa per Alessia Piperno rilasciata quarantacinque giorni dopo, sempre dal carcere di Evin a Teheran.
Tutti si augurano lo stesso esito, anche con decorso di prigionia più breve. Ma alla fine di questa storia che tiene tutti sospesi ci si dovrà interrogare anche sul senso e sull’agibilità degli inviati in aree di guerra o comunque sottoposte a regimi illiberali.
Il valore dell’inviato ha un’importanza insormontabile nell’informazione e nella ricerca della verità che altrimenti si vedrebbe fortemente limitata alla lettura dei comunicati e alle opinioni degli esperti di geopolitica. Gli inviati debbono rendere a parole e, se consentito, per immagini il senso dell’atmosfera vissuta nell’area di cui fanno reporting. Un lavoro di massima attenzione ma anche di massima cautela. Capire cosa succede, qual è il sentire generale e il livello di drammaticità delle situazioni senza però gettarsi in avventure impossibili e troppo rischiose, tipo quelle di fare investigazione.
L’inviato la prima cosa che deve riportare, oltre l’idea generale ma precisa di quanto sta accedendo in quel luogo, è la propria pelle. Inutile tentare il protagonismo in eroiche rilevazioni. Tantopiù in realtà dove i giornalisti sono considerati a priori degli intrusi.
La missione della scoperta di verità nascoste fa parte dei miti della nostra società che si tengono in piedi in situazioni di pace e sono spesso una finzione perché tanti reporting in grado di svelare profondità mai esplicate prima sono molto spesso il risultato di segrete rivelazioni di confidenti informati sui fatti. IL reporting, come avviene in diverse trasmissioni televisive, appare come il fumus architettato per dare l’illusione di essere arrivati a certe conclusioni con le proprie gambe.
Realizzato in zone di guerra, questo modo di fare reporting è semplicemente suicida. Dovrebbe essere detto a chiare lettere alle nuove leve svelando molto della retorica che ancora perdura in questo mestiere. Ci sono tante visuali da mostrare nel lavoro di inviato e non è detto debbano essere considerate lesive da parte delle forze militari aventi il controllo delle aree. Gli occhi dell’inviato debbono essere a servizio del lettore e il lettore deve continuare a potersene servire per capire meglio una realtà.
Ed è per questo che sono importanti tanto dal dover giustamente fare ogni sforzo affinché continuino ad essere operativi.