Storia di una scissione: Cina, Taiwan e una crisi di identità.
Per comprendere al meglio un conflitto non possiamo sottrarci all’analisi storica di esso e dei Paesi protagonisti. Pur ritrovandoci nel 2021 per fare chiarezza su quanto successo a inizio ottobre bisogna riportare le lancette indietro fino al 1912, l’anno in cui la Repubblica di Cina subentrò alla dinastia Qing. In questo contesto di forte instabilità i principali soggetti politici erano il Kuomintang (KMT), il partito Nazionalista e il partito Comunista. Con l’avvento al potere di Chiang Kai-Shek come leader del KMT, i toni tra i due partiti principali si inasprirono fortemente, dato il netto divario ideologico tra i due fronti. Kai-Shek aveva infatti in mente per la Repubblica di Cina un sistema liberal-capitalista. Il Kuomintang, dopo aver sconfitto i signori della guerra del nord e aver sedato le proteste bolsceviche, formò nel 1928 un nuovo governo con capitale a Nanchino, consegnando nelle mani di Kai-shek il potere politico e militare. Si susseguirono anni di conflitti sanguinosi, da quelli interni tra KMT e partito Comunista a quelli esterni contro il Giappone durante la Seconda guerra mondiale. Dopo tre battaglie decisive tra il 1948 e il 1949, il KMT viene sconfitto e Mao Tse-Tung, leader del partito Comunista, il primo ottobre 1949 dichiara la nascita della Repubblica Popolare Cinese. Chiang Kai-Shek e i suoi fedelissimi si rifugiano sull’Isola di Taiwan, tornata in mani cinesi in seguito alla resa del Giappone alla fine del secondo conflitto mondiale. Kai-Shek aveva portato con sé le riserve auree del paese e quanto restava dell’aviazione e della marina. Così, l’ormai stanco e ancora inesperto esercito comunista nulla poté nei confronti dei nazionalisti asserragliati a Taiwan. Sferzare un attacco contro l’isola di Formosa, sarebbe stata per la neonata Repubblica Popolare Cinese un’operazione suicida che l’avrebbe spogliata delle risorse economiche e umana rimaste. Mao Tse-tung affermò la Repubblica Popolare Cinese come la legittima erede della Repubblica di Cina e dichiarò illegale il governo di Taiwan. Il Kuomintang, incurante del volere di Mao Tse-tung, continuò il suo operato di governo a Taipei, mantenendo il nome di Repubblica di Cina e la sua unicità. Entrambi i fronti continuarono a ribadire la loro volontà di unificare il continente, ovviamente sotto un’unica potenza egemone che non avrebbe fatto prigionieri.
La tensione vola sui cieli di Taipei.
Durante la ricorrenza dell’anniversario della nascita della Repubblica Popolare Cinese, data di certo non casuale, alcuni aerei hanno iniziato a sorvolare lo spazio di identificazione di difesa aerea taiwanese fino a diventare oltre 150 nei giorni successivi. Dal 1 al 4 ottobre l’Esercito di Liberazione popolare aveva organizzato dei voli nei pressi di Taiwan in occasione dei giorni di festa nazionale, ma la celebrazione rientrava in una dimostrazione di forza ben precisa, carica di una pesante valenza simbolica. Il governo di Taipei sembra aver ricevuto il messaggio forte e chiaro, così come le altre potenze internazionali sempre più preoccupate per la continua ingerenza cinese nello scacchiere politico ed economico globale. Se nel 2020 le incursioni aerei cinesi sui cieli di Taiwan sono state 380, nel corso del 2021 è già stata raggiunta quota 600, di cui solo 150 nei giorni dal 1 al 4 ottobre. La Cina sta lanciando così un messaggio chiaro alla vicina tigre asiatica, che potrebbe andare incontro alla stessa fine di Hong Kong e Macao.
Pechino, dal canto suo, non ha rilasciato dichiarazioni in merito a questi voli visti come potenzialmente minacciosi, non riconoscendo l’indipendenza del Governo di Taipei, come espresso nella “One China Policy”. Ma il leader Xi Jinping durante un discorso nel luglio 2021, per celebrare il centenario del partito comunista cinese, è risultato ben chiaro nell’esplicitare le sue intenzioni: “ Il separatismo indipendentista di Taiwan è il più grande ostacolo al raggiungimento della riunificazione della madrepatria e il più grave pericolo nascosto per il ringiovanimento della nazione. Il compito storico della completa riunificazione deve essere assolto, e lo sarà sicuramente. Chiunque voglia tradire e separare il Paese sarà giudicato dalla storia e non farà una buona fine. Nessuno dovrebbe sottovalutare la ferma determinazione, la volontà e la capacità del popolo cinese di difendere la sovranità nazionale e l’integrità territoriale”. La retorica storica e patriottica è in realtà solo una maschera per i veri interessi che muovono le decisioni di Xi Jiping: affermarsi in un’area geograficamente ed economicamente rilevante, ma soprattutto privare l’Occidente, e in particolare gli Stati Uniti, di uno dei suoi principali partener commerciali, militari e politici in Oriente. Dopo settantadue anni, né i cittadini cinesi, né tantomeno quelli taiwanesi credono ancora nella riunificazione delle “due” Cina, per tanto il movente storico ha in questo caso una mera valenza propagandistica, per giustificare la storia che si ripete. Una guerra fredda mai finita tra Occidente e Oriente, in cui la Russia ha ceduto il ruolo di principale antagonista degli Stati Uniti alla Cina. Se Joe Biden ha recentemente dichiarato ai microfoni della CNN che gli Usa si dichiarano pronti a intervenire in caso di conflitto, la Russia non ha dubbi nel rimanere al fianco del suo alleato, sottolineando la supremazia economica della Cina su quella statunitense, e affermando che Pechino non ha bisogno della forza per riprendersi Taiwan, che inoltre il Cremlino non riconosce come stato indipendente.
La “bestia nera” di Taiwan e un asso nella manica per scongiurare un possibile conflitto.
A riguardo non ci sono dubbi, la Cina è più grande, è più forte e determinata ad inglobare Taiwan entro il 2049, eppure l’isola che si affaccia sullo stretto di Formosa ha un asso nella manica per scongiurare il conflitto. Tralasciando la spinosa difesa a ‘istrice’ di Taiwan, la salvezza di Taipei sta nel suo primato di produzione di semiconduttori, fondamentali per l’industria tecnologica. Se la Tigre Asiatica dovesse decidere di tirare fuori gli artigli e di imporre alla Cina un blocco commerciale sui semiconduttori, l’economia cinese avrebbe un duro colpo da incassare. In questi giorni il Governo taiwanese si è riunito infatti per discutere il budget per gli investimenti nel settore della Difesa. Si tratta di circa 8,7 miliardi di dollari, i cui due terzi verrebbero spesi in armi anti-nave come i sistemi missilistici terrestri, insieme a un piano di produzione di massa di missili di sviluppo domestico e navi “ad alte prestazioni”. La Presidente Tsai Ing-wen, ribattezzata dai cinesi come ‘la bestia nera’, è ben consapevole dell’importanza di evitare un conflitto armato e in una recente intervista su Foreing Affairs ha sollecitato tutte le forze internazionali a schierarsi al fianco di Taiwan, per scongiurare un eventuale invasione cinese prevista entro il 2025.
Taiwan e gli altri stati internazionali.
Taiwan ha occupato il suo seggio all’Onu fino al 1971, quando è stata approvata la “Risoluzione 2758” con cui la Repubblica di Cina è stata espulsa dalle Nazioni Unite e sostituita dalla Cina Popolare. I paesi con cui il governo di Taipei intrattiene formali relazioni diplomatiche sono: Santa Sede, Swaziland ( Eswatini ), Belize, Guatemala, Haiti, Honduras, Nicaragua, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia, Saint Vincent e Grenadine, Paraguay, Isole Marshall, Nauru, Palau e Tuvalu.
Aurora Mocci