Il 25 ottobre l’esercito sudanese ha arrestato il Primo ministro, Abdallah Hamdok, economista formatosi in Inghilterra, con la moglie e diversi membri civili del Consiglio Transitorio Sovrano, l’organo misto composto da militari e civili che avrebbe dovuto guidare la transizione democratica del Paese fino alle elezioni del luglio 2023. La Costituzione approvata nel 2019 all’indomani della deposizione del regime trentennale del dittatore Omar al-Bashir è il frutto di un fragile compromesso tra le eterogenee forze che hanno destituito Bashir: l’esercito, guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan; i gruppi paramilitari, tra cui le famigerate Rapid Support Forces dell’attuale vice di Burhan, il generale Mohammed Hamdan Dagalo; e i rappresentanti della popolazione civile, protagonista della versione sudanese della primavera araba. Secondo questo compromesso, tra pochi giorni Burhan avrebbe dovuto cedere la apicale carica di Presidente de facto del CTS ad Hamdok, che avrebbe sostituito nel ruolo di Primo Ministro. Avvicendamento che non avverrà almeno fino alle elezioni, secondo quanto annunciato da Burhan.
Lo stesso Hamdok aveva definito questo governo un’”alleanza paradossale”, tra i carnefici militari responsabili del genocidio delle popolazioni non arabe del Darfur e le vittime, cioè i civili “riformisti”. A settembre c’era già stato un tentativo di colpo di Stato. Non è chiaro se architettato dai militari o da islamisti fedeli a Bashir. Fatto sta che ad esso erano seguite manifestazioni in favore della democrazia e manifestazioni, meno partecipate, in favore di un intervento dei militari. I quali non si sono lasciati sfuggire l’occasione per scacciare i civili dalle strutture di governo. Ciò, nonostante due giorni prima l’inviato speciale Usa per il Corno d’Africa, Jeffrey Feltman, avesse ammonito i generali contro eventuali colpi di Stato.
Giustificazione dell’atto di forza da parte dei golpisti è la crisi economica in cui è scivolato il Paese, attanagliato da un’inflazione che ha superato il 300 percento, e l’incapacità dell’ala non militare del governo di rimettere l’economia in carreggiata. In realtà, altri fattori possono spiegare l’attaccamento al potere da parte delle milizie. Innanzi tutto, il sistema di potere di Bashir faceva affidamento sul sostegno di militari e para-militari, la cui fedeltà il dittatore aveva comprato concedendo loro significativi privilegi economici ai quali ora non sono disposti a rinunciare. In secondo luogo, società che prima appartenevano alla famiglia di Bashir sono state espropriate dalle forze armate ed oggi sono fonte di cospicui guadagni per i militari. In terzo luogo, i gruppi paramilitari, generalmente islamisti, sono polverizzati in una miriade di fazioni spesso in lotta tra di loro, che non accettano di sottomettersi alla legge civile. Inoltre, chi gestisce il potere gestisce anche le risorse del Paese, in particolare i giacimenti di petrolio e le miniere d’oro, anche se parte dei primi si trova nella provincia di Abyei, contesa con il Sud Sudan. Non da ultimo, l’abolizione della Sharia e la parziale emancipazione femminile seguite alla rivoluzione del 2019 sono viste con ostilità dai gruppi conservatori.
D’altra parte, a partire dalla sua indipendenza nel 1956 il Sudan ha vissuto una lunga stagione di guerre civili che arrivano fino ai giorni nostri. Ed anche le rivoluzioni democratiche del 1964 e del 1985 sono state soffocate da contro-rivoluzioni militari. I protagonisti della contro-rivoluzione militare di questi giorni sono Burhan e Dagalo.
Entrambi cresciuti e foraggiati da Bashir, nel 2015 hanno coordinato la missione militare sudanese in Yemen a supporto della coalizione a guida saudita contro i ribelli Huthi, sciiti e filo-iraniani. Ciò ha consentito loro di allacciare relazioni con i regimi di Ryad, Abu Dhabi e Il Cairo, che prima li hanno finanziati copiosamente e poi, allo scoppiare della rivolta contro il dittatore sudanese, li hanno incoraggiati a tradirlo. Voltafaccia che inizialmente si è materializzato nella collaborazione con i rivoltosi civili ma che, dopo la deposizione e l’arresto di Bashir, si è tramutato nel tradimento anche di questi ultimi, con la repressione delle manifestazioni e l’uccisione di più di 100 persone.
La guerra del Darfur – vale la pena ricordarlo – scoppiata nel 2003 per mano di gruppi ribelli che denunciavano l’apartheid da parte del governo centrale contro la popolazione non araba, ha causato circa mezzo milione di vittime e più di tre milioni di rifugiati, per cui Bashir è accusato dalla Corte Internazionale di Giustizia di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Burhan, invece, non ha accuse formali per crimini a suo carico ed era uno dei pochi generali non islamisti nell’esercito di Bashir. Ciò gli ha consentito addirittura di accreditarsi come leader non estremista e affidale, sebbene autocratico, e di provare a intestarsi i meriti della fine dell’isolamento internazionale del Sudan. Dagalo è unanimemente riconosciuto come responsabile dei crimini commessi dalle sue milizie del Janjaweed (l’unità poi ridenominata Rapid Reaction Forces) contro la popolazione non araba del Darfur, sebbene non sia nella lista degli accusati del Tribunale dell’Aia.
La secessione del Sud Sudan nel 2011, la rimozione del Sudan dalla lista degli “Stati canaglia” – il regime di Khartoum aveva dato asilo ad Osama bin Laden e ai terrosisti di Al Qaida che avevano usato il Sudan come base logistica per gli attentati del 1998 contro le ambasciate USA in Tanzania e Kenya – l’eliminazione delle sanzioni, l’accordo di pace del 2020 tra il governo di Khartoum e le fazioni ribelli del Darfur e la adesione agli Accordi di Abramo con Israele sono tutti progressi che avevano fatto sperare in una “normalizzazione” del Paese. Il pugno di ferro usato nei giorni scorsi dai militari contro i manifestanti, con l’uccisione di più di 10 persone e il ferimento di altre 150 e la decapitazione di tutti gli organi dell’opposizione, riporta l’orologio indietro di quasi tre anni.
In realtà il Sudan è il teatro di una competizione tra attori esterni che cercano di guadagnare il controllo del Mar Rosso, anello di collegamento tra l’Oceano indiano e il Mediterraneo e quindi uno dei due snodi marittimi più importanti del mondo. La partita che si gioca è una replica di quella libica, con Turchia, Qatar e Fratellanza musulmana da una parte e Russia, Egitto, Emirati Arabi Uniti ed Arabia Saudita dall’altro. Gli Stati Uniti cercano di scoraggiare le iniziative di entrambe le fazioni, ma ritengono gli alleati turchi comunque preferibili ai russi. La Cina continua ufficialmente a praticare la politica di non interferenza negli affari interni dei Paesi africani, che le consente di farsi amici tra i governi dei Paesi messi al bando dall’Occidente. Questo è quanto accadde già dopo l’introduzione delle sanzioni contro il Sudan di Bashir, il quale affermò esplicitamente come il suo governo guardasse “verso Est, in particolare verso la Cina”. La quale è uno dei principali acquirenti del petrolio sudanese. Ed il governo di Bashir non ha fatto mancare il proprio sostegno a Pechino quando si è trattato di sottoscrivere una dichiarazione in suo favore sulla questione degli Uighuri dello Xinjang.
Dopo essersi assicurata il controllo della Siria di Assad, la Russia, attraverso i mercenari del Gruppo Wagner, ha conquistato la Cirenaica del generale Haftar e gran parte del Fezzan, ha sconfinato in Ciad dove i suoi contractors hanno assassinato il presidente Deby, si è installata nella Repubblica centrafricana e sta facendo altrettanto in Mali. Inoltre, la Marina russa ha accesso a porti sulla costa mediterranea dell’Egitto. La tessera sudanese al puzzle africano della Russia era stata aggiunta nel dicembre dell’anno scorso quando Mosca aveva ottenuto da Khartoum un accordo per la concessione di una base navale a Porto Sudan. Solo la susseguente pressione americana ha convinto i sudanesi a bloccarne l’accesso a navi straniere e chiedere la revisione del contratto ai russi. I cui mercenari della Wagner intanto sono penetrati anche in questo Paese.
La Turchia ha ambizioni da grande potenza ed ambisce a raggiungere uno sbocco sugli oceani. Una delle direttrici dell’espansione turca è quella che partendo dalla Tripolitania – occupata dopo il rifiuto italiano alla richiesta di aiuto da parte del governo di Tripoli – arriva in Somalia attraversando il Sudan e l’Etiopia. Perciò, all’inizio del 2018 Erdogan ha ottenuto dal suo protetto Bashir un contratto di affitto di 99 anni dell’isola di Suakin, un ex-porto ottomano sul Mar Rosso, e altri 11 contratti di cooperazione economica, infrastrutturale e militare. Col cambio di governo a Khartoum, l’Egitto ed i suoi alleati del Golfo hanno ottenuto dai sudanesi l’annullamento del contratto coi turchi “al fine di tenere il Sudan lontano dall’asse Turchia-Qatar-Fratellanza musulmana”, come confessato da un parlamentare egiziano. La carta giocata ora da Erdogan è quella dei gruppi (ex-)ribelli del Darfur. Il suo piano prevede la costruzione di una autostrada tra la Tripolitania e il Darfur per esportare la Fratellanza musulmana e tenere in scacco il governo di Khartoum.
L’ambiguità e tardività della reazione internazionale al colpo di Stato di una settimana fa riflette le divisioni della comunità internazionale. Per essere efficace avrebbe dovuto essere una pro-azione congiunta che dissuadesse preventivamente Burhan e i suoi. Washington, che è il maggiore finanziatore bilaterale di Khartoum, ha risposto immediatamente congelando aiuti per 700 milioni di dollari. La Banca Mondiale ha bloccato una linea di finanziamenti a fondo perduto per 2 miliardi di dollari. Colpi pesanti per un Paese con un debito pubblico di 50 miliardi di dollari ed un reddito pro capite di 800 dollari l’anno. L’Unione Africana ha sospeso il Sudan, e la Lega Araba ha chiesto il ritorno del governo misto. La scommessa dei generali è che il costo dello sgarbo fatto agli americani sarà compensato dal sostegno egiziano, emiratino e saudita, dal supporto militare russo e dall’incapacità della comunità internazionale di mettersi d’accordo su una linea sanzionatoria su ampia scala. Il fatto che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non sia riuscito ad unirsi nella condanna contro i generali golpisti a causa dell’opposizione russa sembra aver segnato un punto in favore di Burhan. Né la condotta dell’Unione Africana di condannare ufficialmente dittatori e autocrati ma di preferirli nei fatti all’instabilità sembra giocare a favore della transizione democratica.
Lo scontro con l’Etiopia a causa della costruzione da parte di Addis Abeba della diga Grand Ethiopian Renaissance Dam, che modificherebbe il flusso delle acque del Nilo verso Sud, rischia di innescare ulteriori incendi in una regione flagellata da carestie, migrazioni, estremismo islamico e guerre.
Tutte crisi che possono aggravarsi e scaricarsi ulteriormente sull’Italia, ormai fronte dell’instabilità e condannata da molti soci europei al ruolo di spugna delle crisi che vengono da Sud e Sud-est. Attraverso il Mar Rosso transitano poi un terzo del commercio mondiale e gran parte delle materie prime ed energetiche di cui l’Italia abbisogna. Mentre gli altri cercano di guidare gli eventi a loro vantaggio e contro i nostri interessi, Italia e Unione Europea non vanno oltre dichiarazioni formali e inefficaci. Noi italiani continuiamo a mettere la testa sotto la sabbia e intanto rischiamo di trovarci crisi e guerre dentro casa. Una credibile strategia italiana – se possibile attraverso l’Unione Europea – per il Sahel e il Corno d’Africa non risulta pervenuta.
Gaetano Massara