Si è tenuta venerdì scorso la conferenza di Parigi sulla Libia, co-presieduta da Francia, Italia, Germania, ONU e, per la prima volta da quando si tengono conferenze sul suo futuro, dalla Libia. La quale era rappresentata dalle due anime rivali che guidano le precarie istituzioni dell’Autorità esecutiva libica di transizione: il presidente del Consiglio presidenziale di transizione, Mohamed Al-Menfi e il primo ministro del Governo di unità nazionale di transizione, Abdel Dabaiba. Altri 23 Stati più Unione Europea, Unione Africana, Lega Araba e Segretariato del G5 del Sahel hanno partecipato. Presenti gli USA, rappresentati dalla vice-presidente, Kamala Harris. Assenze pesantissime quelle dei leader dei due Stati che si sono di fatto spartiti la ex-Quarta sponda italiana. La Turchia, sapendo che gli altri Paesi avrebbero reiterato la richiesta di ritiro delle forze straniere, ha declassato il livello della propria presenza inviando solamente il vice-ministro degli esteri, con il presidente Recep Erdogan che ha ufficialmente motivato la sua assenza per la partecipazione della Grecia, di Cipro e di Israele. La Russia, invece, rappresentata dal ministro degli esteri Sergei Lavrov, ha negato il proprio coinvolgimento nelle operazioni militari svolte in Libia dalla Compagnia di mercenari “Wagner”. Assenze che fin dall’inizio mettono una seria ipoteca sulle speranze di poter dar seguito agli accordi presi. D’altra parte, era prevedibile che i due nuovi colonizzatori della Libia cercassero di prorogare il più a lungo possibile la loro occupazione del suolo libico e sabotare la conferenza.
Per comprendere gli ostacoli che si frappongono alla stabilizzazione della Libia, ripercorriamo le tappe della via crucis libica.
Nel 2011 Francia e Regno Unito avevano deciso che la posizione di preminenza dell’Italia in Libia non era accettabile e che il regime del Colonnello Ghedaffi, firmatario del Trattato italo-libico di amicizia del 2008, doveva essere rovesciato. Perciò avevano sostenuto gli oppositori del regime ed iniziato un bombardamento della Libia che gli sarebbe potuto costare un nulla di fatto e una grave perdita di credibilità se non fosse stato per l’aiuto degli USA, chiamati in soccorso a sopperire l’insufficienza di munizioni degli anglo-francesi, e dell’Italia, maldestramente passata dalla parte dei nemici dei propri amici. Il 15 settembre Nicolas Sarkozy e David Cameron da un balcone di Bengasi salutavano giubilanti la stagione di anarchica e violenza in cui avevano precipitato la Libia con il placet di Obama, che li avrebbe più tardi sconfessati. La prima guerra civile libica terminava il 20 ottobre 2011 con l’uccisione del Rais e, tre giorni più tardi, con la dichiarazione di “liberazione della Libia” da parte del Governo di transizione nazionale (GTN). Già allo scoppio della Prima guerra civile l’ONU aveva imposto l’embargo sulla vendita di armi alla Libia, fatte salve le forniture al governo internazionalmente riconosciuto. A nove anni di distanza l’embargo si è dimostrato fallimentare e le armi non hanno smesso di affluire nel Paese, fornite da soggetti stranieri che si fanno la guerra per procura.
Ma le rivalità tra le fazioni che avevano deposto Gheddafi unite alle difficoltà incontrate da parte del GTN nel far deporre le armi alle varie milizie avevano portato allo scoppio della Seconda guerra civile libica nel 2014. Avevano così iniziato a delinearsi gli schieramenti attuali. A Ovest, la Tripolitania del Congresso Nazionale Generale (CNG), riconosciuto dalla comunità internazionale e basato nella capitale libica. In più, vari gruppi armati tra cui Alba Libica, sostenuta dalla Turchia e dal Qatar. A Est, la Cirenaica della Camera dei Rappresentanti (CdR), basata a Tobruch, con l’Esercito Nazionale Libico del generale Khalifa Haftar e sostenuta da Russia, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, il confinante Egitto e la Francia. Nel 2016 un accordo di pace tra le fazioni in lotta della Tripolitania mediato dall’ONU aveva portato alla sostituzione del CNG con un Governo di Accordo Nazionale (GAN), guidato da Fayiz al-Sarraj. Nemmeno questo governo veniva però riconosciuto dalla CdR e da Haftar. La relativa semplificazione degli schieramenti aveva quindi portato alla guerra aperta tra le due regioni costiere libiche – storicamente rivali per il controllo del Paese e riunite sotto uno stesso Stato dal Regno d’Italia.
Nell’aprile del 2019 Haftar lanciava un’offensiva che dava inizio alla fase più violenta della guerra. Le sue truppe, con l’aiuto dei mercenari della Compagnia russa Wagner e migliaia di miliziani siriani sostenitori del regime di Assad, riuscivano così ad avanzare verso Ovest minacciando la stessa Tripoli.
Nel frattempo il governo italiano, da sempre sostenitore di Serraj, vedendo il continuato sostegno ad Haftar da parte di importanti attori e poi la sua avanzata, aveva iniziato a caratterizzarsi per l’ambiguità delle sue posizioni. Nonostante continuasse ad appoggiare formalmente il governo di Tripoli, adottava toni molto più concilianti nei confronti di Haftar. Tanto che già alla conferenza di Palermo del 2018 il governo Conte aveva invitato il generale cirenaico, facendo così irritare i turchi i quali abbandonavano la conferenza in anticipo. Poi, nella sua visita in Libia nel 2019, il ministro degli esteri Di Maio aveva incontrato sia Serraj che Haftar.
Il 19 dicembre 2019 Serraj indirizzava una richiesta di aiuto a Italia, Usa, Regno Unito, Algeria e Turchia per “respingere l’attacco a Tripoli” e “cooperare con il governo di accordo nazionale nella lotta alle organizzazioni terroristiche”, all’immigrazione clandestina e ai trafficanti di esseri umani. Mentre Washington, Londra e Algeri rispondevano declinando la richiesta di intervento diretto e Ankara non si lasciava sfuggire l’occasione per installarsi in Tripolitania, Roma rispondeva solo a mezzo stampa che “la soluzione deve essere politica, non militare” e che “bisogna evitare un bagno di sangue”. Il quale purtroppo ci sarebbe stato anche senza l’intervento italiano ed europeo. Pochi giorni più tardi, il GAN annunciava l’attivazione del memorandum con la Turchia. In un’intervista al Corriere della Sera, per rispondere alle critiche italiane per l’accordo con la Turchia, Serraj affermava: «Cosa vi aspettate voi italiani? Che noi a Tripoli stiamo passivi a guardare mentre l’aggressore distrugge la nostra capitale, uccide civili, bombarda le nostre case?».
La Turchia inviava immediatamente propri ufficiali in aiuto del GAN, circa 3.000 jihadisti siriani e i micidiali droni turchi di anti-difesa aerea. Le sorti della guerra iniziavano a capovolgersi. Nel giugno del 2020 arrivava la sconfitta decisiva delle truppe di Haftar, che venivano cacciate da Tarhouna, città a 100 km a sud-est di Tripoli e base utilizzata per sferrare gli attacchi alla capitale. La perdita di Tarhouna sanciva il fallimento dell’offensiva di Haftar sulla Tripolitania.
A questo punto, i registi esterni della guerra, Turchia e Russia, decidevano di avviare i negoziati. Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, e la sua controparte turca, Mevlut Cavusoglu, si accordavano per un immediato cessate il fuoco e per la ripresa dei colloqui di pace guidati dall’ONU. Subito dopo, anche Serraj ed Haftar accettavano la ripresa dei negoziati di pace. Il 23 ottobre 2020 veniva deciso il cessate-il-fuoco e che tutte le forze straniere lasciassero il Paese entro tre mesi.
Continua…
Gaetano Massara