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Proviamo a immaginarci gli effetti del trattato del Quirinale sul posizionamento internazionale dell’Italia e a snocciolare le controversie italo-francesi che il trattato dovrebbe aiutare a sciogliere.
Alla luce dell’esistenza di una cooperazione rafforzata in essere tra Francia e Germania sancita attraverso due trattati bilaterali, vi è il rischio che la mera adesione dell’Italia ad un trattato italo-francese senza il parallelo coinvolgimento – presente o futuro – della Germania abbia l’effetto di ergere Parigi a fulcro dell’equilibrio tra i tre Paesi e quindi dell’Europa. Questo è un obiettivo francese che lo stesso Macron ha lasciato intendere. L’obiettivo invece per l’Italia deve essere la costruzione di una intesa tra tre soggetti. Un triangolo piuttosto che due assi convergenti su Parigi. Lo strumento potrebbe essere la stipula di un trattato trilaterale ex novo. Cosa non possibile, almeno nel breve termine, visto che la firma del trattato italo-francese avverrà tra poche ore e che a Berlino il primo governo del dopo-Merkel si sta insediando mentre scriviamo. In alternativa, si potrebbe pensare ad un trattato italo-francese e ad un trattato italo-tedesco che replichino il Trattato di Aquisgrana. Ci auguriamo che i negoziatori italiani siano riusciti ad inserire una clausola di salvaguardia per l’adesione della Germania al trattato del Quirinale o dell’Italia al trattato di Aquisgrana. Certamente Draghi si farà promotore di coalizioni variabili, che vedranno l’Italia legata strategicamente a Francia e Germania e allo stesso tempo collaborare strettamente con i Paesi mediterranei dell’UE.
Nel 2023 la disattivazione della clausola di salvaguardia del Patto di stabilità ci riporterà ai duri tempi dell’austerità. Inoltre, la Banca centrale europea cesserà il programma di acquisto dei titoli di Stato, con il conseguente rischio di un innalzamento dei tassi di interesse sull’enorme debito pubblico italiano, pari oggi al 153% del PIL. Le finanze pubbliche francesi, con un debito al 115% del PIL, non versano in condizioni molto migliori delle nostre. Roma e Parigi hanno bisogno di essere alleate nella disputa con i Paesi “frugali” per una riscrittura delle regole della governance della moneta unica in favore di una maggiore flessibilità e una mutualizzazione del debito a livello comunitario.
La Francia vuole essere una potenza globale ed ha l’ambizione di perseguire una politica estera indipendente dagli USA, pur rimanendo strettamente alleata a Washington. Per quanto velleitaria possa sembrare, l’intesa con l’Italia, agli occhi di Parigi, rientra in questa strategia di disimpegno dall’America. Il rischio per noi è che Washington percepisca il trattato italo-francese come un nostro tentativo di allentare il legame transatlantico. Una clausola che fughi questo dubbio sarebbe utile, in particolare pensando al giorno in cui gli americani non saranno più rassicurati dalla presenza di Draghi al vertice delle istituzioni italiane. Ma allo stesso tempo, una ritrovata intesa con Parigi, eventualmente allargata a Berlino, avrebbe l’effetto di rendere Roma meno fragile agli occhi degli USA. In particolare, non avremmo più bisogno che il nostro avvocato americano perori la causa della flessibilità contabile a Berlino e a Bruxelles ma potremmo concentrarci a discutere con gli americani di Mediterraneo.
Difesa. Lo scorso gennaio le forze armate francesi hanno iniziato i preparativi per l’eventualità di una guerra ad alta intensità. Il bilancio della difesa francese raggiungerà 50 miliardi di euro all’anno entro il 2025, con un incremento del 48% rispetto al 2018. La Francia sarà probabilmente l’unico alleato NATO a spendere almeno il 2% del PIL nella difesa, così come richiesto dagli americani. La prima tappa sarà il Programma Scorpione, col quale le forze armate francesi modernizzeranno tutte le unità mobili e corazzate. Inoltre, le forze aeree di Parigi sono state ribattezzate in Forze aeree e spaziali a significare l’impegno nella guerra satellitare e tecnologica. Gli investimenti francesi nel settore militare sono coerenti con la promozione da parte loro dell’autonomia strategica europea, di cui si candidano a prendere la guida. Ai loro occhi ciò è logico, visto che sono l’unica potenza nucleare e la maggiore potenza militare del Continente. Ma una forza autonoma autenticamente europea imporrebbe la condivisione dei ruoli militari di vertice con i soci europei, come avviene con la rotazione della Presidenza del Consiglio dell’UE. Ciò che i francesi sono restii a concedere. Inoltre, mentre italiani e tedeschi concepiscono l’eventuale cooperazione militare rafforzata europea solo come un sottoinsieme della NATO, i francesi aspirano ad emanciparsi dall’alleanza atlantica.
Nel Mediterraneo e in Africa sono molti i dossier che vedono Italia e Francia competere l’una contro l’altra. Tuttavia, Roma e Parigi condividono una minaccia: l’espansionismo turco. Parigi teme le mire neo-ottomane di Erdogan nella Franciafrica e nei suoi ex possedimenti di Siria e Libano. Roma si è trovata, per propria colpa, i turchi a controllare la Tripolitania, con il rischio immediato che Erdogan possa ricattarla minacciando di riversare in Sicilia migliaia di migranti come fa con la Grecia oppure che alimenti il jihadismo per mezzo dei Fratelli musulmani. Senza considerare i rischi di più lungo termine alla sicurezza italiana derivanti dall’installazione di un regime ostile sulla sponda Sud dello Stretto di Sicilia. Prova tangibile della minaccia turca è l’accordo turco-libico del 2019 sulla delimitazione delle rispettive Zone Economiche Esclusive (ZEE) in base al quale le ZEE dei due Paesi sono state estese fino a divenire contigue. In base a tale accordo, porzioni di alto mare dove sono soliti pescare e incrociare navigli italiani rientrerebbero nella ZEE turca, la quale ingloberebbe anche acque territoriali e ZEE di diverse isole greche. Il comune interesse a contenere la Turchia nella penisola anatolica, sebbene l’atteggiamento dell’Italia sia «fermo ma reversibile», è un fattore che gioca in favore di una divisione di responsabilità nel Mediterraneo, in base alla quale l’Italia potrebbe farsi carico di pattugliare il Mediterraneo centrale e la Francia quello orientale.
In Libia, dopo 11 anni di violenze e caos scatenati dall’improvvida decisione francese di far cadere il regime di Gheddafi per scacciare l’Italia dalla Quarta sponda, Parigi ha dapprima sostenuto il parlamento di Tobruk ed il generale Haftar. Poi, vista la mala parata, ha fatto dietro front e si è allineata alle posizioni italiane, adoperandosi in favore dello svolgimento delle elezioni del prossimo dicembre e del ritiro delle truppe turche e russe (se mai esso avverrà). Il ritrovato coordinamento italo-franco-tedesco sulla questione libica potrebbe costituire un modus operandi replicabile in altre questioni. In primis in Tunisia, Paese fortemente instabile dove la Francia ha sostenuto il colpo di Stato del luglio scorso da parte del Presidente, il quale ha destituito il Primo ministro ed il parlamento filo-turchi.
Poi, in Sahel dove su insistenza di Parigi abbiamo inviato un contingente di 250 soldati in Mali a supporto della missione Takuba a guida francese, dopo che l’opinione pubblica transalpina era diventata insofferente per le numerose perdite subite. Scelta che non capiamo. Primo, perché il Mali non rientra tra le priorità dell’Italia nella regione saheliana. Al contrario, inviare un nostro contingente in Niger – a supporto della missione italiana già dislocata in quel Paese – ci consentirebbe di presidiare il confine Sud della Libia, da cui transitano flussi di migranti irregolari e traffici di armi e droga diretti in Italia. Secondo, perché mentre i nostri soldati tolgono le castagne dal fuoco ai francesi in Mali, questi si disimpegnano da quel Paese e i russi vi accorrono chiamati dal governo maliano. Con il rischio per i nostri di doversi trovare a sostenere uno scontro armato con i soldati di Mosca. Peccato che il governo di Parigi opponga resistenze ad un impiego delle nostre forze in Niger, evidentemente nel timore che l’Italia possa stringere il cerchio attorno alla Libia per riguadagnarvi posizioni. Ci auguriamo che il trattato del Quirinale corregga questo grave errore, assegnando all’Italia il compito di occuparsi del fianco Nord-orientale del Sahel (dall’Agadez nigerino al Ciad e al Sudan) e alla Francia di quello Nord-occidentale (dal Mali con la zona delle tre frontiere fino al Senegal). Sempre nel quadro di un mandato dell’ONU e dell’UE, in cooperazione con l’Unione Africana.
Inoltre è necessario un accordo su Algeria e Marocco, Paesi reciprocamente ostili per la questione del Sahara occidentale, il cui regime indipendentista del Fronte polisario è apertamente sostenuto dagli hezbollah filo-iraniani.
Sui Balcani, confidiamo che Draghi sia riuscito a persuadere Macron dell’opportunità di un allargamento dell’UE che dia a quei Paesi una alternativa più attraente dell’alleanza con Russia, Cina o Turchia. Resta da vedere quale è la visione dei due leader circa il futuro assetto geopolitico della regione, visto che il processo di dissoluzione dell’ex Jugoslavia non ha portato ancora ad un assetto definitivo.
Una equa e definitiva delimitazione delle rispettive zone economiche esclusive: occorre alzare le antenne dopo il precedente dello sciagurato trattato di Caen firmato nel 2015 dall’allora ministro degli esteri Gentiloni. A norma di quel trattato, l’Italia avrebbe ceduto alla Francia un braccio di mare tra Sardegna, Corsica e Toscana con possibili giacimenti di idrocarburi e una zona di mare ligure conosciuta per la pesca del gambero rosso. Esso è stato per fortuna disinnescato dalla mancata autorizzazione parlamentare. Resta invece da risolvere la disputa tra Italia e Francia sulla linea di confine del Monte Bianco.
La decisione francese di acconsentire in via di principio all’estradizione dei terroristi italiani che dal 1985 trovano asilo in Francia grazie alla protezione loro assicurata dal Presidente socialista Mitterand potrà nei fatti essere applicata solo tra un paio di anni. Essa sembra essere una condizione sospensiva, una moneta di scambio che la Francia può giocarsi su altri dossier. Un impegno definitivo di Parigi all’estradizione dei terroristi aiuterebbe a ricostruire la fiducia.
Nonostante gli investimenti oltre confine delle Piccole e medie imprese (PMI) italiane equivalgano più o meno a quelli delle PMI transalpine, per le acquisizioni industriali di dimensioni maggiori molti sono i casi che hanno indotto gli osservatori a parlare di incoerenza dei governi francesi, pronti ad invocare il mercato quando gli acquirenti sono transalpini ma pronti a chiudersi in arrocco a difesa degli asset nazionali quando l’acquirente è italiano. Rientrano nella prima fattispecie l’operazione Stellantis, in cui lo Stato francese detiene una golden share del 6,2% e il caso TIM, riesploso in questi giorni in seguito all’OPA del fondo americano KKR osteggiata dalla francese Vivendi, azionista di maggioranza con il 24% delle azioni. Quest’ultimo caso riaccende i riflettori sulla necessità di tutelare la sicurezza nazionale attraverso la proprietà dello Stato di infrastrutture strategiche come quelle delle telecomunicazioni lasciandone l’utilizzo agli operatori di mercato.
Rientrano nella seconda fattispecie la mancata acquisizione di STX da parte di Fincantieri, bloccata da un ricorso alla Commissione Europea dell’autorità alla concorrenza francese e la mancata acquisizione di Suez Electrabel da parte di ENEL a causa della pronta fusione tra la società elettrica francese con Gaz de France architettata nel 2006 dal Primo ministro de Villepin in risposta all’OPA dell’azienda italiana.
Bisogna poi porre fine alla faida UE sull’etichettatura dei cibi sfociata nel contrasto tra fautori del Nutri-Score, voluto da Macron in persona – che declasserebbe i prodotti tipici italiani a cibi poco salutari, in sfregio alla denominazione della dieta mediterranea come Patrimonio mondiale dell’UNESCO – e l’industria agroalimentare italiana. Siamo riusciti per ora a sventare la minaccia grazie all’introduzione del Nutrinform su iniziativa della ministra Bellanova.
Allo stesso modo, si auspica una fine della battaglia politico-legale per mezzo delle istituzioni europee sugli aiuti di Stato ad Air France e ad Alitalia, ora ITA, entrambe tenute in vita per lungo tempo dalle sovvenzioni dei rispettivi governi.
Dobbiamo trovare una sponda francese nella difesa dei porti italiani, il cui vantaggio sui porti nord-europei è dato dal minor tempo e costi che le merci impiegano per raggiungere i mercati di destinazione dell’Europa centrale. La Commissione Europea lamenta che i porti italiani, sotto la veste giuridica di Autorità di Sistema Portuale, ricevano indebiti aiuti dallo Stato italiano.
Uno dei prossimi dossier sarà poi la vendita da parte di Leonardo della Oto Melara di La Spezia e della Wass di Livorno, leader nella produzione di veicoli blindati, cannoni navali, siluri e sonar. Esse fanno gola soprattutto alla franco-tedesca Knds, in vista della produzione del futuro carro armato pesante europeo.
E’ rientrato invece il caso del presunto sabotaggio del razzo Vega, costruito dall’italiana Avio e lanciato in orbita il 17 novembre 2020 dalla francese Arianespace per conto dell’Agenzia Spaziale Europea. Il giorno stesso dell’incidente, il titolo di Avio ha perso il 16% del valore in Borsa divenendo così bersaglio di possibili scalate ostili, proprio dopo un periodo di forti investimenti da parte di concorrenti tedeschi e francesi. L’accordo sembra aver permesso di voltare pagina prevedendo una confermata collaborazione grazie ai nuovi Ariane 6 e Vega-C.
Sembra esserci accordo anche in merito alla necessità di adoperarsi congiuntamente in sede europea per la rettifica del Regolamento di Dublino al fine di ottenere una equa distribuzione dei migranti tra gli Stati membri.
Molto più difficile sarà convincere la Francia a rinunciare alla propria rendita di posizione in favore di una riforma in senso più democratico del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite e di un autentico spirito europeo. L’Italia insieme ai Paesi del Gruppo Uniting for Consensus è riuscita a sventare un tentativo di riforma del Consiglio che avrebbe assegnato a Brasile, Germania, Giappone e India un seggio permanente senza diritto di veto, declassandoci così al rango di Paese di terza fascia. Da anni l’Italia si batte affinché gli Stati dell’UE che sono anche membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – siano essi permanenti o temporanei – cedano il proprio seggio a beneficio dell’UE. La Francia si è sempre rifiutata. Una condivisione del seggio almeno tra Francia, Italia e Germania sarebbe un segnale inequivocabile di cooperazione rafforzata.
La tempistica. Il prossimo aprile ci saranno le elezioni presidenziali francesi. La firma del trattato con l’Italia verrà “venduta” da Macron come un successo della sua presidenza, a supporto così di una sua rielezione. Da questo punto di vista, Macron ha un interesse diretto nel concludere il trattato ora piuttosto che tra qualche mese. Ciò ha aumentato il potere contrattuale della parte italiana. Speriamo che i nostri negoziatori lo abbiano usato al meglio.
Per diventare effettivamente vincolante, per l’Italia come per la Francia, il trattato dovrà essere ratificato dai rispettivi presidenti della Repubblica previa autorizzazione dei rispettivi parlamenti. Non si possono quindi escludere ostacoli parlamentari finalizzati all’introduzione di riserve o addirittura al rigetto.
Ben venga quindi un trattato italo-francese se esso serve a riportare le relazioni tra Parigi e Roma su un binario di simmetria ed equità e se è prodromico ad una intesa a tre con la Germania per la creazione di un direttorio europeo. Resterà poi il problema, più profondo, per l’Italia di decidere cosa vuole fare da grande e di risolvere i suoi problemi endemici.
Gaetano Massara