Mentre il Paese sprofonda in una crisi umanitaria senza precedenti esasperata dal gelo invernale, con il crollo dell’economia i talebani chiedono il riconoscimento e l’aiuto della comunità internazionale che ha però sempre condizionato qualsiasi passo avanti nelle relazioni diplomatiche al rispetto dei diritti umani.
Dopo quattro mesi, arriva così un decreto sui diritti delle donne, che sono talmente elementari da sembrarci anacronistici. Il decreto, diffuso dal portavoce dell’Emirato islamico, si compone di pochi e forse ai nostri occhi scontati elementi, eccone alcuni.
Per contrarre matrimonio è necessario il consenso delle donne; nessuno può costringerle a sposarsi contro la loro volontà: «La donna non è una proprietà, ma un essere umano nobile e libero; nessuno può darla a nessuno in cambio di un patto di pace» per saldare debiti o stringere alleanze.
Nessuno può sposare una vedova con la forza compresi i parenti del marito defunto, questa ha il diritto di scegliere il proprio futuro. «La vedova ha diritti ereditari e una quota fissa della proprietà del marito, dei figli, del padre e dei parenti, e nessuno può privare una vedova di questo diritto».
Resta comunque grave la situazione sul fronte dell’accesso all’istruzione, ancora negato alle donne e sugli altri diritti fondamentali azzerati dalla cultura retriva dei nuovi detentori del potere: il decreto non fa cenno alcuno al diritto al lavoro, ai diritti di espressione e di eguaglianza, di partecipazione alla vita pubblica e alla politica, ai diritti civili e sociali.
Del resto sappiamo bene che anche in Pakistan andò così, come ci racconta già dall’incipit nel suo libro “Io sono Malala”, Malala Yousafzai, pakistana, Premio Nobel per la Pace nel 2014.
«Quando nacqui la gente del mio villaggio commiserò mia madre e nessuno si congratulò con mio padre […] ero una bambina venuta alla luce in un paese in cui quando nasce un maschio, tutti escono in strada e sparano in aria, mentre le femmine vengono nascoste dietro una tenda, perché già si sa che nella vita il loro ruolo sarà semplicemente quello di far da mangiare e mettere al mondo figli».
La storia di Malala è nota a tutti: quando aveva solo 15 anni, un membro dei talebani pakistani salì a bordo dello scuolabus che la stava riportando a casa e le sparò un proiettile nella tempia sinistra che sfiorò l’occhio sinistro, il cranio e il cervello, lacerando il nervo facciale, frantumando il timpano, rompendo le articolazioni della mascella e lasciandola in fin di vita.
La sua colpa? Semplicemente quella di voler andare a scuola, nonostante un decreto dei talebani vietasse alla popolazione femminile di ricevere un’istruzione.
Racconta nel suo libro: «Papà diceva sempre che la cosa più bella che si può vedere in un villaggio di mattina è un bambino con l’uniforme scolastica, ma ormai avevamo paura di indossarla».
Andò proprio così: quando i talebani nel 2007 presero il controllo della sua città natale nella valle dello Swat in Pakistan, poco dopo, gradualmente impedirono alle ragazze di ricevere un’istruzione, vietarono alle donne di lavorare o semplicemente di uscire, di andare ad esempio al bazar, impedirono agli operatori sanitari di vaccinare i bambini contro la poliomelite, chiusero i negozi di musica e DVD, i saloni di bellezza e vietarono tanto tanto altro come sta accadendo ora in Afghanistan.
Malala ci racconta che dalla Radio locale Radio Mullah, i talebani comunicavano alla popolazione, congratulandosi con le ragazze che si ritiravano da scuola, chiamandole per nome:
«“La signorina Tal de Tali ha smesso di andare a scuola e andrà in paradiso”, oppure “La signorina Kulsum del tale villaggio ha interrotto la sua istruzione alla classe quinta: mi congratulo con lei!”
Le ragazze come me che ancora andavano a scuola le chiamavano bufale e pecore.
Io e le mie amiche proprio non riuscivamo a capire perché la cosa dovesse essere tanto sbagliata. ”Perché non vogliono che le ragazze studino?” domandavo a papà.
”Perché hanno paura della penna”, rispondeva lui.»