Secondo alcune statistiche nei Balcani c’è in media una guerra ogni trentatré anni. Sono passati trent’anni dall’accordo di pace di Dayton, che ha posto fine alla guerra in Bosnia-Erzegovina e dal 23° anniversario del bombardamento della Nato in Serbia e Kosovo. La regione è tutt’altro che stabilizzata, tanto che si può parlare di tregua trentennale ma non ancora di vera pace.
Una regione che era composta da due stati – Iugoslavia e Albania – è ora frammentata in otto repubbliche: sette repubbliche indipendenti precedentemente parte della federazione iugoslava più l’Albania. Con solo 24 milioni di abitanti, un PIL complessivo di 250 miliardi di euro e un PIL pro capite di appena 10.000 euro, tutti e otto sono piccoli, fragili e soggetti all’influenza di potenze straniere. Tutti sono afflitti da corruzione, nepotismo, alta disoccupazione, soprattutto tra giovani e donne, emigrazione e declino demografico. Tuttavia, ce ne sono alcuni più deboli e instabili di altri: Bosnia-Erzegovina e Kosovo e, in misura minore, Macedonia del Nord e Montenegro, parzialmente protetti dalla loro appartenenza alla NATO. Questi quattro paesi sono l’epicentro di questioni irrisolte: albanese, serba, croata e macedone-bulgara. Tutte sono questioni intrecciate l’una con l’altra.
La “macedonia” di culture e le ingerenze esterne
I confini di questi stati non corrispondono ai loro confini etnici, religiosi o linguistici. Per preservare l’equilibrio tra i principi dell’integrità territoriale e il diritto delle persone all’autodeterminazione, il diritto internazionale indica che un gruppo autoidentificato che abita un territorio definito su cui esercita un possesso effettivo ha diritto a secedere dallo Stato di appartenenza se è in grado di dimostrare che gli è stata negata la capacità di esercitare il suo diritto di autogoverno democratico e che al suo popolo sono stati negati i diritti fondamentali dell’uomo. Nei mesi che portarono al crollo della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, la comunità internazionale decise che i confini internazionalmente riconosciuti delle nuove repubbliche indipendenti avrebbero dovuto essere quelli definiti dalla Costituzione iugoslava del 1974.
Per secoli le potenze straniere hanno gareggiato per assicurarsi sfere di influenza nella regione. L’originaria unità delle tribù slave immigrate dalla Carpazia nel VI secolo fu presto spezzata dagli slavi residenti nella parte settentrionale della regione, i quali fondarono il Ducato di Croazia, ottennero la protezione del papa e furono assoggettati ai Franchi, poi agli Ungheresi e all’impero austro-ungarico. Al contrario, gli slavi che vivevano nella parte meridionale della regione rimasero fedeli all’Impero Romano d’Oriente.
Albania e Dardania (l’attuale Kosovo), invece, erano abitate da Illiri. La Dardania è stata soggetta alla dominazione serba dalla fine del XII secolo fino all’arrivo dei Turchi due secoli dopo, che introdussero ulteriori elementi di diversificazione culturale. Tra il 14° e il 15° secolo, gli ottomani conquistarono i territori della moderna Macedonia, Albania, Kosovo, Serbia e Bosnia-Erzegovina, e imposero la fede islamica. Le guerre balcaniche del 1912-13 e la Prima guerra mondiale portarono all’espulsione degli ottomani e degli austro-tedeschi, ma non posero fine alla loro influenza nella regione.
La Russia, sin dai tempi dello zar Nicola I, ha utilizzato la dottrina panslavista per realizzare un certo grado di unità politica tra gli slavi europei. Nel perseguimento di questo progetto, ha eletto la più grande nazione ortodossa della regione, i serbi, come loro protetto.
La Iugoslavia fu creata sulle ceneri dell’impero asburgico. La sua funzione geopolitica di barriera contro una possibile ripresa dell’espansione austro-tedesca nell’Europa sudorientale è ben illustrata nella Dichiarazione di Corfù del 1917, il primo atto della creazione del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.
Le nuove repubbliche
Dopo la riunificazione della Germania e la fine dei regimi comunisti nell’Europa centrale e orientale, dal punto di vista tedesco non solo il regime della Iugoslavia avrebbe dovuto essere sostituito, ma la stessa federazione avrebbe dovuto essere smantellata. Slovenia e Croazia dichiararono la loro indipendenza nel giugno 1991. L’allora ministro degli Esteri tedesco Hans-Dietrich Genscher riuscì a superare l’opposizione iniziale dei partner esteri all’indipendenza di Slovenia e Croazia attraverso un artificio legale e diplomatico: il 17 dicembre 1991 annunciò che la Germania avrebbe riconosciuto l’indipendenza delle due repubbliche nei giorni successivi ma che l’atto sarebbe entrato in vigore solo il 15 gennaio 1992. Il riconoscimento tedesco arrivò il 23 dicembre 1991, seguito subito dopo da quello della Santa Sede, degli Stati baltici, dell’Ucraina e dell’Austria. Prima del 15 gennaio tutti gli stati europei avevano riconosciuto l’indipendenza di Croazia e Slovenia. Sebbene non vi siano dubbi sul fatto che la pressione della Germania sui suoi partner europei abbia accelerato la disgregazione dello stato jugoslavo, molti sostengono anche che abbia innescato lo spargimento di sangue che ne è seguito e che si sarebbe potuta realizzare una transizione meno dolorosa.
La Macedonia dichiarò l’indipendenza nel settembre 1991. Anche per questa repubblica rimanevano problemi da risolvere. In primo luogo, le preoccupazioni della Grecia secondo la quale consentire alla nuova repubblica di chiamarsi ufficialmente col nome di “Repubblica di Macedonia” avrebbe potuto ingenerare rivendicazioni da parte di Skopje sul territorio della Macedonia greca. Un compromesso provvisorio fu raggiunto assegnandole il nome di “Ex Repubblica Iugoslava di Macedonia”. In secondo luogo, la minoranza albanese che vive nella parte occidentale del paese rappresenta quasi un terzo della popolazione totale e la sua ricerca di un grado speciale di autonomia era molto forte. Terzo, i suoi legami storici e culturali con la Bulgaria, il cui punto di vista arriva al punto di affermare che la Macedonia è una regione bulgara.
Le rivalità etniche emersero in tutta la loro crudeltà durante la guerra in Bosnia-Erzegovina, un tempo modello di successo per l’integrazione tra bosgnacchi musulmani, croati cattolici e serbi ortodossi. Subito dopo la sua dichiarazione unilaterale di indipendenza, nel marzo 1992, venne riconosciuta dalla maggioranza della comunità internazionale e ammessa all’Onu ma fu anche attaccata dalle forze jugoslave. Le divisioni all’interno della comunità internazionale impedirono una rapida soluzione della crisi. Mentre gli Stati Uniti chiedevano la revoca dell’embargo sulle armi alla Bosnia-Erzegovina, Francia e Gran Bretagna erano riluttanti a sostenere i bosgnacchi poiché ritenevano che “la creazione di uno stato musulmano in Europa sarebbe stata innaturale”. Solo i massacri di Sarajevo e Srebrenica convinsero gli europei a schierarsi con gli americani e mettere in atto le controffensive militari che respinsero i serbi.
I croati dal canto loro miravano a raggiungere Banja Luka, capitale della Republika Srpska (l’entità a maggioranza serba della Bosnia-Erzegovina), ma furono bloccati dal presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, che non volle acconsentire alla creazione di una “Grande Croazia. ” L’accordo di pace di Dayton che disegnò l’assetto politico e amministrativo dell’odierna Bosnia-Erzegovina, da un lato ha avuto il merito di istituzionalizzare un compromesso tra i belligeranti, ma dall’altro ha creato una farraginosa architettura istituzionale che ha generato recriminazioni tra le componenti.
La linea di confine tra la Republika Srpska e la Federazione croato-musulmana (la seconda delle due entità amministrative della Bosnia-Erzegovina) assegnò il 49% del territorio bosniaco ai serbi e il 51% alla Federazione. Al contrario, i bosgnacchi sentirono di non aver ottenuto ciò a cui avrebbero avuto diritto in virtù della demografia e delle violenze subite. I croati invece furono delusi dal non aver ottenuto un’entità autonoma e dal dover condividere le istituzioni della Federazione croato-musulmana con i bosgnacchi.
Il potere di veto di cui godono i tre “popoli costituenti” in tutti i livelli di governo combinato con il principio della devoluzione dei poteri tra i quattro livelli amministrativi – governo centrale, due entità, dieci cantoni all’interno della Federazione croato-musulmana e comuni – mina l’efficacia dell’azione di governo e legislativa. Tale complessità istituzionale riproduce gli stessi meccanismi che hanno portato al crollo delle istituzioni jugoslave e, infine, alla guerra.
Dopo la fine della guerra in Bosnia, il Kosovo prese il centro della scena. Fin dai tempi della Iugoslavia, gli albanesi del Kosovo aspiravano ad essere riconosciuti come la settima repubblica della federazione. Josip Broz Tito aveva loro concesso lo status di autonomia speciale senza elevarli de jure al rango di repubblica federata. Nel 1989, Slobodan Milošević revocò tale status, riaccentrando tutti i poteri su Belgrado. Gli albanesi del Kosovo reagirono dichiarando l’indipendenza. Sebbene venissero riconosciuti solo dall’Albania, Belgrado rispose rafforzando ulteriormente la presa sul Kosovo, innescando così l’escalation da parte dell’Esercito di liberazione del Kosovo (UCK), che poté contare sul sostegno tedesco e americano. Anche la Turchia era fortemente favorevole all’indipendenza del Kosovo. La Russia invece, sebbene sostenitrice della causa serba, era in una difficile fase di transizione seguita al crollo dell’URSS e non poteva permettersi di avanzare un’opposizione credibile contro l’Occidente.
Gli atti di pulizia etnica indussero la Nato a intervenire senza un mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Con l’accordo di Kumanovo e la conseguente risoluzione 1244/99 del Consiglio di sicurezza, Belgrado dovette accettare di concedere al Kosovo un grado di autonomia analogo a quello di Serbia e Montenegro, seppure all’interno della federazione. Il Kosovo non era ancora uno stato pienamente indipendente poiché il futuro status della provincia avrebbe dovuto essere determinato attraverso ulteriori negoziati.
L’ultima fase della disintegrazione della Jugoslavia avvenne nel 2006 con la pacifica secessione del Montenegro dalla Serbia. La sua indipendenza privava la Serbia di un accesso diretto al mare. Ma con una minoranza serba che rappresenta circa un terzo della popolazione, Belgrado e Mosca possono ancora provare a guidare gli eventi nel piccolo stato adriatico.
Il nuovo disordine
La dissoluzione della Jugoslavia determinò il crollo della barriera geopolitica per la quale era stata creata e segnò la ripresa dell’influenza tedesca nella regione. Il panorama odierno della regione è caratterizzato da una frammentazione politica con una tendenza all’integrazione economica. Questa è la struttura che meglio risponde agli interessi della Germania. Per questo motivo Berlino è il più forte sostenitore dell’integrità territoriale degli Stati emersi dopo le guerre avvenute negli anni ’90.
In questo contesto, Germania e Austria continuano a sponsorizzare croati e sloveni, mentre la Russia sostiene i serbi e la Turchia i musulmani della regione.
L’attivismo cinese nella regione ha aggiunto un elemento di complicazione. La strategia di Pechino è quella di penetrare economicamente nella regione attraverso la “Via della seta” ed eventualmente costruire una sfera di influenza. Ne è un esempio la “trappola del debito” in cui si trova il Montenegro a causa dei finanziamenti cinesi.
Gli Usa non sono pregiudizialmente favorevoli o contrari a una specifica organizzazione geopolitica della regione purché non vengano superate alcune linee rosse. La principale è che il sistema di sicurezza euro-atlantico non deve essere minacciato. In altre parole, Russia e Cina devono essere tenute a bada. Il modo più efficace per farlo è espandere la NATO al maggior numero possibile di paesi della regione. Se ciò non è possibile, è necessario costruire un cordone sanitario attorno ai potenziali nemici.
Slovenia e Croazia sono ben integrate nella comunità occidentale in quanto membri sia dell’UE che della NATO. L’adesione di Albania, Montenegro e Macedonia del Nord alla NATO ha chiuso l’accesso lungo la costa adriatica agli avversari degli Usa e ha confinato la Serbia e la Republika Srpska all’interno della penisola balcanica. La presenza stessa di Camp Bondsteel, la più grande base militare statunitense nei Balcani e tra una delle più grandi d’Europa, è la garanzia ultima degli interessi statunitensi nella regione.
La seconda linea rossa da non oltrepassare secondo gli Usa è quella dei diritti umani.
I rischi futuri
Il Kosovo ha dichiarato l’indipendenza unilaterale da Belgrado nel 2008, con il sostegno degli Usa e della maggior parte degli stati europei. Ma la sua piena sovranità è lungi dall’essere un dato acquisito. Ad oggi, cinque membri dell’Ue e quasi la metà dei membri delle Nazioni unite non hanno ancora riconosciuto la sua indipendenza. Soprattutto, la Serbia e la Russia continuano a richiamare la risoluzione 1244/99 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite e il diritto della Serbia all’integrità territoriale.
L’accordo di Bruxelles del 2013 tra Belgrado e Pristina sotto gli auspici dell’UE ha sembrato marcare un progresso. Ma ulteriori negoziati sulla loro effettiva attuazione si sono bloccati a causa della riluttanza di Pristina a consentire la creazione dell’Associazione dei comuni serbi e del rifiuto di Belgrado di riconoscere l’indipendenza del Kosovo senza garanzie per la minoranza serba.
Nuove speranze per una soluzione definitiva sono nate nel 2018 con il progetto di accordo discusso in segreto dai presidenti della Serbia Aleksandar Vučić e del Kosovo Hshim Thaci, con il sostegno della Commissione europea e degli Usa. In base a questo accordo Pristina avrebbe restituito a Belgrado i comuni serbi del Kosovo settentrionale mentre Belgrado avrebbe ceduto a Pristina la valle di Preševo, a maggioranza albanese. Questo accordo, tuttavia, è stato bloccato da Germania, Bosnia-Erzegovina e Macedonia del Nord, preoccupate di una possibile diffusione del contagio secessionista alla Republika Srpska e alla Macedonia occidentale a maggioranza albanese. Un tentativo simile è stato fatto nel 2019 dall’amministrazione Donald Trump, ma è stato nuovamente respinto dall’opposizione tedesca e dall’incriminazione del presidente Thaci al Tribunale dell’Aia.
Sulla stessa linea, ma con una visione regionale, i due “non-paper” diffusi l’anno scorso. Il primo di essi è stato attribuito all’ex primo ministro sloveno Janez Janša. Esso suggerisce di risolvere la “questione albanese” attraverso l’unificazione del Kosovo con l’Albania dopo aver concesso al Kosovo settentrionale a maggioranza serba uno status di maggiore autonomia simile a quello dell’Alto Adige italiano; la “questione serba” attraverso la fusione di una parte più ampia della Republika Srpska con la Serbia; e la “questione croata” attraverso l’annessione dei cantoni a maggioranza croata dell’Erzegovina alla Croazia. Ciò consentirebbe “ai bosgnacchi di ottenere uno Stato indipendente e funzionante” e “un’accelerazione dei negoziati per l’adesione dei Paesi della regione all’Ue e alla Nato”.
Dallo scorso dicembre l’attenzione internazionale si è spostata nuovamente verso la Bosnia-Erzegovina e la Republika Srpska, il cui parlamento ha votato a favore di disposizioni che consentirebbero all’entità di recedere da istituzioni centrali come il fisco, la magistratura e le forze armate.
Nel 2016, Milorad Dodik, l’uomo forte dell’entità serba e ora membro della presidenza a rotazione tripartita della Bosnia-Erzegovina, ha annunciato la sua intenzione di tenere un referendum sull’indipendenza della Republika Srpska nonostante il fatto che ciò sarebbe illegale ai sensi dell’Accordo di Dayton. Ad oggi questo referendum non si è ancora svolto.
Dodik e altri leader serbi negano il genocidio di Srebrenica e per anni hanno bloccato l’approvazione di una legge che vieta la negazione del genocidio. Questa legge è stata approvata solo l’anno scorso perché imposta dall’Alto rappresentante per la Bosnia-Erzegovina.
Contrariamente alla Republika Srpska, i bosgnacchi mirano ad un più alto grado di centralizzazione dei poteri. Un ragionevole compromesso potrebbe essere quello proposto da pochi illuminati leader: un’organizzazione federale basata sul modello della Svizzera o del Belgio dove la rappresentanza politica in ogni entità sia basata su garanzie costituzionali piuttosto che su criteri etnici.
La crisi ucraina rende più difficili i compromessi nei Balcani
Il confronto est-ovest sull’Ucraina rischia di vedere una replica nei Balcani. Tutti i membri della Nato della regione, così come il Kosovo e i bosgnacchi, sono schierati con l’Ucraina e gli Usa.
Al contrario, la Serbia si trova in una posizione scomoda. Negli ultimi anni, il presidente Vučić ha coltivato una politica di neutralità, mantenendo buoni rapporti con gli Stati Uniti e i suoi principali alleati occidentali al fine di bilanciare i legami storici con la Russia. Sebbene Belgrado abbia votato a favore della risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che condanna l’aggressione della Russia all’Ucraina, finora è riuscita a respingere le pressioni occidentali per conformarsi alle sanzioni contro Mosca.
La maggioranza dei serbi è con la Russia. E poiché la Republika Srpska tende ad allinearsi con Belgrado, la Bosnia-Erzegovina finisce per essere paralizzata e incapace di assumere qualsiasi posizione ufficiale, nonostante musulmani e croati di Bosnia favoriscano l’Ucraina e l’Occidente.
La Bosnia-Erzegovina rischia di essere il palcoscenico in cui una scintilla potrebbe riaccendere una guerra per procura tra Russia e Occidente. A differenza del Kosovo, non ha né una grande base militare statunitense che funge da deterrente né un numero significativo di peacekeeper. La Republika Srpska ha il potenziale per trasformarsi nella Transnistria balcanica e il suo leader Dodik è un sostenitore di Vladimir Putin.
Le prospettive di integrazione europea rimangono lontane
I cittadini della regione non hanno ricevuto le risposte che speravano dai partner dell’UE circa il loro ingresso nell’Unione. Ciò li ha resi più tiepidi verso una possibile adesione.
Tuttavia, le esperienze della Catalogna, della Scozia, dei Paesi Baschi e persino della Corsica mostrano che l’adesione all’Ue può essere complementare alla ricerca dell’autodeterminazione nazionale. D’altra parte, la proposta del presidente francese Emmanuel Macron di creare una Comunità politica europea complementare e non sostitutiva all’adesione all’UE potrebbe offrire ai paesi dei Balcani occidentali una tappa intermedia nel loro percorso di piena integrazione nell’Ue.
La riorganizzazione dello spazio ex-iugoslavo non è finita
Durante la sua visita a Sarajevo l’anno scorso, il presidente sloveno Borut Pahor ha detto ai membri della presidenza tripartita della Bosnia-Erzegovina che “ci sono alcuni circoli nell’UE che credono che sia necessario completare il processo di disintegrazione della Jugoslavia e solo allora i Paesi dei Balcani occidentali potranno essere accettati nell’UE”. Purtroppo, il rischio che questo processo si verifichi in modo violento esiste.
Per guidare gli eventi in modo pacifico e coordinato sono necessari pragmatismo e sforzi diplomatici eccezionali da parte dell’UE e dei suoi alleati. Diversamente, la citazione di Winston Churcill secondo cui “i Balcani producono più storia di quanta ne possano consumare” potrebbe tornare ad essere vera.
Gaetano Massara