“MADRE” di Go Dugong e Washé è fuori dall’8 novembre. Un album che segue in maniera chiara e lineare il concept del viaggio, attraverso uno storytelling che coniuga l’esperienza di viaggio dei due artisti con la loro esperienza musicale. “MADRE” è un’opera che si muove tra l’Italia e il Venezuela, guardando alle radici e ai legami con la Madre Terra.
Nell’intervista che segue, abbiamo avuto il piacere di approfondire l’esperienza di Giulio Fonseca (in arte Go Dugong) a Caracas, le sue scoperte umane e naturalistiche all’interno della foresta amazzonica e tutte le sfumature che hanno fatto sì che questa esperienza mistica si trasformasse in musica.
- Go Dugong e Washé, un incontro definito “della sorte” , avvenuto nel dicembre 2022 a Caracas. Tu ci credi nel caso?
No, io credo che sia stata una sorta di chiamata durante un periodo che era abbastanza difficile per la mia vita. Mi è arrivata la telefonata dal mio amico Simbo che vive a Caracas, fondatore di Hape collective, un collettivo sparso in tutto il mondo. Simone è un dj, una persona con un’energia eccezionale, tanto che a Caracas ha cominciato ad organizzare eventi creando una connessione con tutta la scena musicale del luogo, compreso Washé, un vero e proprio ricercatore. In quel periodo Washé stava approfondendo il discorso della tradizione indigena venezuelana, mentre io stavo approfondendo il discorso della situazione musicale italiana. Così a Simbo è venuta la brillante idea di farci incontrare, invitandomi a fare una residenza a Caracas, dove finalmente ho conosciuto Washé. La residenza si è articolata in due settimane tra session in studio e vari appuntamenti di serate, compreso un mini tour. Abbiamo così creato una bella interazione tra i nostri generi musicali, come a fondersi l’uno con l’altro. Mi ha colpito subito la natura di Caracas e quindi abbiamo iniziato a fare musica ispirandoci a degli elementi, partendo da terra e acqua e facendo dei disegni che rappresentassero le sensazioni che emanavano questi elementi, utilizzandoli, infine, come spartito. In studio poi guardavano questi disegni e ci lasciavamo ispirare da essi. Il nostro incontro è iniziato così, per essere approfondito in un viaggio che abbiamo poi fatto in Amazzonia.
- Voi parlate di un vero e proprio tributo alla natura, lo raccontate attraverso questo specifico processo creativo, giusto?
Si, Abbiamo parlato tanto del nostro approccio alla natura e del nostro modo di vivere in simbiosi con essa. In Amazzonia abbiamo sperimentato sul campo questa esperienza spirituale che ha intensificato il nostro pensiero, convincendoci ancor di più a fare un disco di questo tipo. Gli strumenti che suona Carlos (Washé) sono strumenti che provengono dalla natura.
- Molto interessante è notare come prendete ispirazione da Herzog e Carlo Rovelli, il quale minimo comun denominatore pare essere l’unicità tra essere vivente e natura stessa. Tornando alla geografia della Foresta Amazzonica, come avete vissuto questo unicum tra essere umano e natura?
Assolutamente si. I primi giorni in Amazzonia, per quanto mi riguarda, sono stati molto duri, stancanti e provanti, perché quel tipo di habitat non è un posto adatto al tipo di essere umano che siamo diventati. Vedevo le comunità indigene che ci hanno ospitato come dei super umani, perché ognuno di loro era in connessione con quell’ambiente. Conoscevano la selva, con le sue piante e gli animali, come noi conosciamo casa nostra.
Ad un certo punto ho iniziato a sentire un’energia molto potente e quindi mi sono ritrovato in questo vortice di cicli di morte, nascita e putrefazione (come dice Herzog). Non sono gli uccellini e il rumore dell’acqua, è un altro tipo di energia molto più potente che non è né positiva né negativa. Semplicemente è. Mi sono ritrovato ad essere parte di tutto questo, guardando un insetto e pensando di essere meno importante di lui: se fossi morto io, sarebbe stato molto meno rilevante in quell’ambito. In un attimo ho quindi ridimensionato la mia esistenza e la mia concezione di vita. Niente sembrava essere più importante, avendo, di conseguenza, una sorta di dissoluzione dell’ego soltanto guardando quel cielo colmo di stelle, mai visto prima. In quella visione mi sono sentito come un granello di sabbia.
- Parliamo del dialogo che avviene tra la strumentazione tradizionale che utilizza Washé, proveniente da diversi gruppi etnici venezuelani, con l’utilizzo dei sintetizzatori, definiti “la quintessenza della nostra epoca”. Perché li definisci così?
Non li ho definiti io così (ride). Il progetto anche se esce a nome mio è di Washé, Hape Collective e Gustavo Vera, un fotografo che ha documentato tutto il nostro viaggio. Io personalmente non so se l’utilizzo del sintetizzatore sia la quintessenza della nostra epoca, sicuramente però è una parte fondamentale ed è interessante fonderla attraverso una connessione con la musica tribale, che ovviamente differisce dalla musica che siamo abituati ad ascoltare tutti i giorni.
- Prima hai parlato di collaborazioni. Questa estate ho avuto il piacere di vedere dal vivo Clap!Clap! Come è nata la collaborazione con lui e con gli altri con cui hai fatto featuring all’interno di questo album?
Abbiamo pensato sin dall’inizio che avere degli ospiti nel disco potesse essere un’occasione per condividere questa esperienza e, quindi, abbiamo invitato due produttori italiani che stimo moltissimo e che sapevo avere la sensibilità giusta per lavorare su materiali di questo tipo: Clap!Clap! e Khalab. Entrambi hanno lavorato con musica folk proveniente da tutto il mondo, oltre ad essere amici da tanti anni. Mi è sembrata l’occasione giusta per coinvolgerli. Invece riguardo i due ospiti venezuelani, uno è Gerry Weil che, essendo una leggenda in Venezuela, è stato un onore averlo nel disco. Stiamo comunque parlando di un uomo di 83 anni, pianista eccezionale, che negli anni ’70 si è lasciato contaminare da sonorità jazz, funk e afro. Soprattutto, Gerry, è stato uno dei primi a sperimentare in Venezuela con la musica indigena e ambient. Consiglio di ascoltare il suo album “The message” . “MADRE” ha una grossa componente ambient oltre che beat, quindi l’altra collaborazione è stata con Miguel Noja, uno dei pionieri di questo genere in Venezuela. Ho avuto modo di conoscerlo lì e ci siamo trovati molto bene a livello umano, così abbiamo deciso di collaborare. Ultimo ma non meno importante, c’è Simbo, un bravissimo DJ e produttore ed io volevo assolutamente la sua presenza anche per ringraziarlo di ciò che ha messo assieme.
- Ti definisci un “viaggiatore cosmico italiano”. Avendo avuto l’occasione di andare in Venezuela e sperimentare questi ritmi tribali, hai mai pensato di continuare questo progetto sperimentale in altre terre?
In realtà l’ho già fatto. Nel 2017 ho fatto un lungo viaggio in India, pubblicando un album sempre per 42 Records, che si intitola Indian Furs. Diciamo che quello è stato una specie di diario di viaggio: un puzzle di filled recordings, per trasmettere le sensazioni provate in quell’esperienza. In Marocco ho cercato di fare lo stesso, ma non ho fatto uscire nulla perché ero arrivato in un momento in cui non mi sentivo più tanto interessato ad avere quel tipo di approccio, diverso da quello in Venezuela dove, invece, mi sono chiuso in studio sviluppando una ricerca diversa con collaboratori autoctoni. Registrare la musica in strada, ad esempio, non mi sembrava eticamente giusto. Ho pensato: lo farò ancora ma con un diverso spirito, come è stato appunto in Venezuela, perché non tutti i posti del mondo sono adatti a questo tipo di approccio.
- Prossimi progetti?
Il prossimo anno uscirà un altro disco in collaborazione con Alfio Antico, un percussionista siciliano con cui mi sono ritrovato a fare musica. È un progetto della LUISS che, in quanto casa editrice, ha deciso di lanciare una collana di tre dischi, mettendo insieme dei musicisti della vecchia tradizione con nuovi più contemporanei.