Fortunata è il nuovo film diretto da Sergio Castellitto, e già nel primo week-end di programmazione ha registrato risultati più che buoni al botteghino. Sicuramente gran parte del merito di questa accoglienza è dovuto all’attesa che genera ogni nuovo lungometraggio nato dalla collaborazione artistica fra il regista romano e la moglie Margaret Mazzantini, autrice fra l’altro dei libri da cui sono stati tratti i film Non ti muovere e Venuto al mondo, la quale questa volta ha scritto la sceneggiatura partendo da zero.
Fortunata è una storia di periferia, ma è anche il nome della protagonista dalla quale questa storia nasce e si dipana in mille differenti direzioni. Quelli che si muovono fra le vie ed i palazzi di Tor Pignattara sono personaggi ordinari che i fili del destino, governati da Mazzantini e da Castellitto, fanno pian piano diventare straordinari. Una madre divorziata, Fortunata, che, per amore della figlia e di sé stessa, deve correre senza fermarsi mai per cercare di raggiungere il suo sogno, costretta a combattere ogni giorno anche contro l’ex marito, Franco, il quale sente il diritto di esercitare sulla madre di sua figlia dei diritti che a nessuno dovrebbero essere concessi. Lui è una guardia giurata che non manca mai di rimarcare due cose: il matrimonio con Fortunata è ancora valido finché non ci saranno delle carte ad ufficializzare il divorzio ed il possesso di una pistola che pende sempre dal suo fianco, pronta per essere usata, su sé stesso o su altri. C’è Chicano, amico della protagonista con problemi di tossicodipendenza, che cerca ogni giorno qualcosa per cui combattere, mentre tenta di rendere più sopportabile la vita di sua madre, malata di Alzheimer. Tutti questi personaggi, queste maschere, ruotano attorno a Barbara, forse l’unica innocente nel mezzo di questo intreccio di storie, motore immobile ed involontario delle vicissitudini raccontate nel film. I personaggi delineati fin qui sono dei veri e propri archetipi della cinematografia di periferia, maschere per l’appunto, che
solamente un intreccio narrativo all’altezza ha potuto rendere tridimensionali e vive, capaci di prendere lo spettatore e tirarlo a forza dentro lo schermo. Gli interpreti hanno saputo rendere perfettamente il disagio e le difficoltà di chi non ha nulla o quasi, di chi tutti i giorni deve lottare per raggiungere un po’ di luce. Alessandro Borghi, Edoardo Pesce, la piccola Nicole Centanni dipingono con maestria la tela messa a loro disposizione da Mazzantini, rendendo le emozioni vivide e reali. Poi c’è Jasmine Trinca, eccezionale nell’essere rappresentazione di un personaggio che, nonostante gli
sforzi che compia ogni singolo giorno, non riuscirà mai ad essere completo. Una incompletezza proiettata sul suo fisico, con i capelli biondo platino che soffrono di una inarrestabile ricrescita (nonostante lei sia parrucchiera) ed un tatuaggio sulla schiena che il suo amico Chicano non porterà a termine. Il sogno che culla da anni, e verso il quale sono rivolte le fatiche della sua quotidianità, è destinato anch’esso a non essere mai raggiunto, perché quel salone di bellezza che le permetterebbe di non correre più avanti e indietro per la città, aspettando che siano le sue clienti a venire da lei, sarà solamente il refrigerio di un momento regalato da un’onda che però, l’attimo
dopo, la risacca porterà lontano. Un sogno sfiorato mentre tutto il mondo intorno a lei cade a pezzi, con un’unica persona a cui sembra possibile aggrapparsi: lo psicologo Patrizio, il quale ha in cura la figlia e che finirà per essere vorticosamente attratto da questa donna, affascinante e respingente al tempo stesso. L’interprete è uno Stefano Accorsi un po’ sottotono, specie se paragonato ai suoi compagni di set, relegato in un personaggio sicuramente intrigante ma forse troppo legato alle sue performance di Mucciniana memoria, quando piacerebbe vederlo più spesso in vesti diverse da quelle di “uomo forte con sporadiche crisi isteriche”. Ma, al netto di ciò, è forse proprio da questo personaggio, in cui fin dal primo momento vengono riposte le speranze dello spettatore, che arriva il
pugno più forte nello stomaco, da cui ci si sente veramente traditi.
Il prodotto finale è un film bello ed allo stesso tempo crudo, amaro. Così come Fortunata è riuscita solamente a sfiorare per un momento il suo sogno, allo stesso modo lo spettatore tocca per un momento soltanto la luce del lieto fine, salvo poi rendersi conto che un finale veramente lieto non potrà esserci. La struttura circolare del film fa sì che tutto cambi per poi tornare a com’era all’origine (più o meno), ed è in questo momento che ci si rende conto che la realtà dipinta da Castellitto è una realtà nella quale i sogni devono essere messi da parte, in cui bisogna accontentarsi di ciò che si ha, senza cercare di andare oltre.
Andrea Ardone