Il Teatro Ghione di Roma, presenta, da giovedì 4 a domenica 14 aprile, Aspettando Godot di Samuel Beckett, con Antonio Salines, Luciano Virgilio, Edoardo Siravo, Fabrizio Bordignon per la regia Maurizio Scaparro.
«Che facciamo adesso? Aspettiamo Godot»: è il refrain che più volte ripetono Estragone e Vladimiro in uno dei più celebri testi di Samuel Beckett, composto alla fine degli Anni ’40 dopo il secondo conflitto mondiale e la bomba atomica in Giappone e andato in scena la prima volta nei primi di gennaio del 1953 nel Thèatre de Babylone di Parigi.
Un titolo, Aspettando Godot, che nel linguaggio corrente è diventato pure un modo per esprimere con quel gerundio del verbo aspettare, che qualcosa o qualcuno tarderà a giungere, non che non arriverà mai e che in tanti si sono scervellati a indicarlo come Dio, il Destino, la Morte. Noi propendiamo per quest’ultima affermazione. Anche se lo stesso Beckett mai ha voluto dare una risposta univoca. Tuttavia, assistendo al Verga di Catania a quest’ultima versione di Maurizio Scaparro, elegante e fedele al dettato beckettiano, la nostra convinzione diventa sempre meno peregrina.
Infatti cos’è la nostra vita se non solo un’attesa dell’eterna nemica che in un giorno qualunque verrà a falciarci da questa terra? Certo, l’uomo sin dagli albori ha riempito il tempo con i suoi interessi, la famiglia, i figli e tutto ciò che poteva servire ad allontanarlo dall’idea della sua finitezza. Ed ecco che ha creato una lingua per comunicare, ha inventato la meridiana, la clessidra, l’orologio per frazionare il tempo, dividendolo in secondi, ore, giorni, settimane, mesi, anni etc.. Quel tempo che il noto fisico Stephen Hawking, condannato all’immobilità su una sedia a rotelle, ha dimostrato che non esiste, come se tutta l’umanità fosse chiusa in una sorta di buco nero.
Quel tempo che fa andare in bestia lo stesso pozzo nel secondo atto della pièce, qui vestito come un domatore da circo con bombetta e frac rossi (i costumi sono di Lorenzo Cutuli) da un superbo Edoardo Siravo, che tiene al guinzaglio il facchino Lucky di Enrico Bonavera (molto applaudita la sua aulica tiritera senza senso), nel momento in cui Vladimiro gli chiede quando ha perso la vista, facendogli esclamare di finirla con le storie del tempo: «È successo un giorno come tutti gli altri, un giorno io sono diventato cieco…un giorno siamo nati, un giorno moriremo, lo stesso istante, non vi basta? Partoriscono a cavallo di una tomba, il giorno splende un istante, ed è subito notte».
Un pensiero che accomuna Beckett a quei tre versi di Quasimodo che già nel 1930 scriveva: «Ognuno sta solo sul cuore della terra/ trafitto da un raggio di sole:/ed è subito sera». Ergo: moriamo nel momento in cui nasciamo. Certamente i clochard Estragone e Vladimiro, o meglio Gogo e Didi come amano appellarsi i due grotteschi personaggi, vestiti in modo impeccabile da Antonio Salines e Luciano Virgilio, sono in grado sempre d’impreziosire lo spettacolo con i loro no-sense e le frasi a metà, senza riuscire a dare risposte ai loro tanti perché, pensando persino talora d’impiccarsi.
Sanno essere anche ilari e mai banali e rappresentano il campionario della nostra umanità colta nei momenti in cui qualcuno (Godot nello specifico) ha dato loro appuntamento in una landa assolata e desolata accanto ad un salice spoglio, senza mai farsi vedere, giungendo al suo posto un ragazzo in salopette (Michele Degirolamo). Egli dirà loro solamente che Godot è un vecchio con una barba bianca e che arriverà domani forse un altro giorno.
Ciò che resta ancora dello spettacolo è la bella scena di Francesco Bottai, resa ancor più metafisica dalle luci calde di Salvo Manganaro, cui seguivano le notti di luna piena tinteggiate d’un azzurro cobalto e calorosissimi gli applausi finali mentre echeggiavano lontane le note di Sous le ciel de Paris.