Eravamo tutti carichi di attesa e alte aspettative quando i Placebo si sono esibiti al Rock in Roma. L’esibizione c’è stata ieri, 8 luglio, in un contesto che, oserei dire, di tensione, considerata la scelta da parte della band di vietare l’utilizzo di cellulari tra il pubblico, scelta comprensibile ma altamente discutibile visto e considerato che lo stesso frontman, Brian Molko, inneggiava contro l’ascesa del populismo di destra, propaganda a cui stanno partecipando moltissime Rock Band durante i loro live in seguito alle elezioni europee. «We are a European Band» ha urlato Brian dal palco del Rock in Roma, anche per sottolineare la loro provenienza dalla Gran Bretagna, lanciando così un chiaro riferimento alla Brexit.
Siamo d’accordo sul fatto che le performance live debbano essere godute attraverso tutti i sensi, “qui e ora”, che nessun spettatore debba essere disturbato da chi gli sta davanti mentre alza le braccia per immortalare un minuto di concerto della propria band del cuore da storizzare seduta stante su Instagram. Ma c’è una linea sottile tra il dare un consiglio e il rispondere con il dito medio al tuo fan sgamato mentre ti filma. Vi è un atteggiamento “passive agressive”, come canterebbe lo stesso Brian Molko in una sua canzone. Il divieto è figlio del Fascismo, l’invito a ragionare è figlio della cultura del dialogo. Molto probabilmente è errata la comunicazione. Siamo maggiormente d’accordo sul fatto che ogni cosa andrebbe detta o fatta con eleganza e parsimonia, a discrezione dell’individuo, che un fan ha diritto di portare a casa un ricordo di quella serata e che un giornalista ha diritto di raccogliere documentazione fotografica o video per il proprio live report. Vi è una problematica di fondo, che è quella dell’imposizione delle proprie idee, che è la radice profonda delle dittature e delle oligarchie, quindi capisco profondamente la buona fede da parte dei Placebo di invitarci a godere della performance live con le mani libere e gli occhi puntati sui loro corpi umani, ma andrebbe quantomeno rivalutato il modus operandi.
Quanto al live, è stato sicuramente emozionante, perché i Placebo sono una di quelle band a cui si vuole bene nonostante non siano molto coinvolgenti a livello di interazione con il pubblico. È la band con cui siamo cresciuti noi millennials affezionati alla cultura Rock Alternative, una band che ormai non è più sulla cresta dell’onda come lo era negli anni 2000, motivo per cui la stragrande maggioranza del pubblico era lì per ascoltare pezzi di una vita che, non si sa per quale assurdo motivo, i Placebo hanno scelto di non fare.
Di tutta la discografia hanno sicuramente dato più importanza agli ultimi album, dando invece poca rilevanza a pezzi storici come “Special needs” o “Special K”, due pietre miliari del progetto Placebo, per un totale di un’ora e 20 di live. A questo punto mi chiedo cosa è mancato affinché la band non chiudesse il concerto a due ore, come tutti ci aspettavamo, chiusura che è avvenuta, inoltre, con “Running up that hill”, cover di Kate Bush.
Insomma, la conclusione finale è che l’aria che si respirava sotto palco non era la stessa atmosfera di calma e relax che millantava Brian Molko dal palcoscenico mentre sorseggiava la sua tisana. C’era un controllo ferreo da parte della security che puntava la torcia a chiunque avesse un telefono in mano, un frontman più antipatico di quanto pensassi che sembrava odiare il proprio pubblico, un live breve e nemmeno troppo intenso vista la freddezza della band. Detto ciò, continuerò ad amare i Placebo perché resteranno sempre la main alternative band della mia adolescenza, ammettendo che, proprio per questi motivi, fa male uscire delusi da un loro live.