“Ti racconto quel magico anno 1983” nella suggestiva location del ristorante “Villa Paganini”, che aveva già stregato il premio Oscar statunitense Robert De Niro. Da “C’era una volta in America” di Sergio Leone allo storico doppio scudetto nella capitale, con questa volta alla regia Valerio Bianchini della Virtus Roma e Luciano Tessari della AS Roma, tecnico in seconda dell’indimenticato maestro Nils Liedholm. Dalla loro viva voce i racconti, gli aneddoti e qualche segreto finora mai pubblicato, di un anno irripetibile per lo sport a Roma. Due personaggi di assoluto spessore sportivo ed umano: due maestri che hanno cresciuto intere generazioni di campioni. La loro classe e la loro competenza, unite ad una umanità ormai rara nella società moderna, ne fanno due icone dello sport. Mai una parola fuori posto, con quel senso del rispetto delle regole, degli avversari, dell’amore verso le città in cui hanno allenato, della riconoscenza verso il pubblico, verso i i dirigenti ed i giocatori con i quali hanno condiviso momenti straordinari dentro e fuori il rettangolo di gioco. “Non solo momenti di gioia, perché la carriera sportiva non è fatta solo di successi. Ma è proprio dalle sconfitte e dai momenti più difficili che devi saper trarre i giusti insegnamenti per migliorare”.
Valerio Bianchini è il coach più titolato della storia della pallacanestro italiana: 2 Coppe Campioni, 1 Coppa Intercontinentale, 1 Coppa delle Coppe, 3 scudetti (Cantù, Roma e Pesaro), 1 Coppa Italia (Fortitudo Bologna), oltre che essere stato il C.T. della Nazionale Italiana nel 1986 ai Mondiali di Madrid e nel 1987 agli Europei di Atene. “La città di Roma – sottolinea Valerio Bianchini – viveva in quegli inizi anni ’80 una sorta di rinascita non solo in campo sportivo: possiamo definire quell’epoca il Rinascimento di Roma, perché si respirava aria nuova, sul piano strutturale ed economico nascevano nuovi investimenti. Nello sport c’era da scardinare il potere milanese di quella “Milano da bere” che s’imponeva nei settori politico, economico ed industriale. Mettemmo storicamente in piedi una battaglia mediatica parallela a quella del campo: Roma sfidava l’egemonia di Milano dentro e fuori il rettangolo di gioco”. Con Eliseo Timò alla presidenza societaria: “Un grande manager – ricorda Bianchini – pur non venendo direttamente dallo sport, dimostrò di sapere gestire il gruppo dirigenziale e tecnico con grande competenza”. Dan Peterson andava ripetendo che Milano era la 25^ squadra dell’NBA: la cronaca restituì invece alla capitale la giusta dimensione anche nel basket con la Virtus Roma che si laureò campione d’Italia, battendo proprio Milano in gara 3 dei play off, dopo aver concluso in testa anche la regular season. Con giocatori che divennero negli anni delle icone del basket: Larry Wright (“un talento straordinario ma dal carattere vulnerabile, quando perdeva era una furia”), Fulvio Polesello (“giocatore determinante anche per la Nazionale, di grande umanità fuori dal campo”), Enrico Gilardi (“un leader silenzioso, carismatico, con una personalità fuori dal comune, dotato in campo di una grande intelligenza tattica”), Clarence Kea (“lo prendemmo prima dei play off in CBA per sostituire l’infortunato Kim Hughes: fu il primo pivot che riuscì a fermare il grande Dino Meneghin”). Con loro una serie di talenti nel roster della Virtus che scrissero la storia del basket capitolino: Kim Hughes, Stefano Sbarra, Roberto Castellano, Marco Solfrini, Peppone Grimaldi, Massimo Prosperi, Egidio Delle Vedove, Fabrizio Valente. “Un aneddoto? Finale di Coppa Campioni contro il fortissimo Barcellona. Alla fine del primo tempo stiamo sotto di dieci punti: giochiamo male, senza testa, con poco mordente. Mentre mi avvio negli spogliatoi comincio a pensare cosa dire alla squadra per farla reagire. Trovo invece negli spogliatoi un Larry Wright incavolatissimo che sbraita in un dialetto louisiano incomprensibile. Noi tutti zitti. Lo guardo e gli dico: sì Larry, hai ragione, faremo proprio così adesso. Furono le uniche parole da me pronunciate. Morale? Vinciamo la partita, Gilardi riesce a far espellere il talento San Epifanio. Alla fine della partita i cronisti mi chiesero cosa mai avevo detto alla squadra nell’intervallo per trasformarla nel secondo tempo: non seppero mai la verità”.
Per Luciano Tessari, soprannominato “l’ombra” di Liedholm nella Roma e nel Milan (Tessari è stato anche tra i fondatori del centro sportivo Milanello insieme a Nereo Rocco, oltre che il primo maestro rossonero di Gianni Rivera): “Liedholm è stato un genio del calcio, prima come giocatore e poi come allenatore, incarnava la vera passione e l’amore per il calcio, con una grande capacità di saper insegnare ai giovani. Una signorilità fuori e dentro dal campo. E’ stato il grande maestro del calcio, il vero allenatore della storia della Roma”. Ma anche il ricordo dei suoi ex pupilli resta sempre vivo e emozionante. A cominciare dai due compianti Agostino Di Bartolomei (“un bravo ragazzo, un punto di riferimento in campo, una bandiera ed un capitano apprezzato da tutti i compagni e dalla città”) e Aldo Maldera (“un terzino capace di diventare il capocannoniere del Milan la dice lunga sul suo talento”), con loro un gruppo di campioni autentici come Paulo Roberto Falcao, l’ottavo re di Roma (“portò la mentalità vincente, fu un leader trainante: disse subito che la Roma doveva scendere in campo sempre per imporsi e vincere anche in casa delle grandi”), Bruno Conti (“la tecnica e la fantasia per eccellenza: si fece amare anche da tutti gli gli italiani quando con Pablito ci trascinò ai Mondiali di Spagna”), Carlo Ancelotti (“proprio noi lo scoprimmo giovanissimo quando giocava centravanti a Parma: diventò un signore del centrocampo e adesso anche lo è anche da allenatore”), il bomber Roberto Pruzzo (“mai più nessuno forte come lui nell’area di rigore”). Con loro le indimenticabili colonne giallorosse come lo zar difensivo Vierchowood, il mastino Sebino Nela, il sorprendente Maurizio Iorio, l’ex nerazzurro Prohaska, lo storico numero 1 Franco Tancredi, il “roscio” funambolico Odoacre Chierico, l’ex perugino Michele Nappi, gli emergenti Valigi, Righetti e Faccini. E l’inossidabile Superchi a fine carriera. Era la Roma del carismatico presidente Dino Viola. Con storici figure come il medico Ernesto Alicicco ed il massaggiatore Vittorio Boldorini. Ma inevitabile resta ancora l’amarezza per quella disgraziata finale di Coppa Campioni persa proprio allo stadio Olimpico contro il Liverpool nel maggio del 1984. Tante leggende avvolgono ancora il dopo partita negli spogliatoi: chi asserisce che ci fu una scazzottata, chi racconta di sedie che volavano. “Pura fantasia di giornalisti che volevano destabilizzare l’ambiente – chiarisce Luciano Tessari – vi posso garantire che l’unico rumore che si percepiva era il silenzio nello spogliatoio. Non ci fu nessuna scazzottata tra i giocatori. A nessun giocatore uscivano le parole, tutti seduti in un agghiacciante silenzio, tanta era la tristezza e l’amarezza dentro di quella finale persa ai rigori. Tutto il resto è invenzione”. Ma ci fu invece un altro episodio che rammaricò Liedholm e Tessari: “Quella sera era presente con i dirigenti già il tecnico Sven Goran Erikkson. Avevano già deciso in un momento davvero inopportuno il futuro della panchina della Roma, prima della finale di Coppa Campioni”.
Marco Tosarello