“L’Ebrezza del tennis – L’essere e il tennis, un rapporto tra finito ed infinito, una missione possibile” scritto da Francesco Zugarelli e Carlo Priolo per rappresentare l’età dei lumi in Italia. Valersi del proprio talento, del proprio intelletto, quando è il movimento a guidare la propria intelligenza.
Ebrezza di eccezione nella vasta Repubblica della filosofia dello Sport. E’ impresa quasi profetica di confini di ebrezza che presiede al mondo fantastico della disciplina dell’impossibile, il tennis, caso singolare e suggestivo nell’universo sportivo, che ha segnato la storia millenaria del genere umano nella sua appassionata dicotomia tra bene e male, tra individuo e comunità, tra natura e cultura, con esiti incerti nella invenzione ardente e temeraria su temi universali tra il tempo e l’eternità, tra la personalità e il suo doppio, tra pazzia e dolore, tra il destino e l’unicità dei sentimenti vincenti nell’irripetibile esperienza individuale, lungo traiettorie disegnate dall’eleganza del movimento, che è eterna danza, ballo, musica del corpo.
Altre definizioni hanno puntato sul carattere metafisico proprio delle invenzioni degli artisti della danza con la racchetta e sembra sempre entrare per la prima volta nel mondo chimerico dell’ebrezza. L’ebrezza del tennis esprime in simboli e allegorie l’impressionante bellezza del sublime dei sentimenti, l’esistenza del mistero che nutre l’energia vitale, che spinge l’umano nel labirinto di un gioco che sembra fortuito e che si serve di allusioni e realtà incomunicabili dove simmetria e disordine, vinti dal caso, compongono figure e leggi inconciliabili con la fisica, si incontrano e si affrontano tra costruzioni mirabili, multiformi parvenze di realtà.
L’opera non trova una fine è in movimento, una costante e originale ricerca dalla quale esulano il metodo, il rigore, la struttura, utili ma parti di un tutto, di un intero, mentre l’ebrezza è infinita là dove l’intuizione trionfa e getta la sua luce su un universo sospeso tra creatività ed ebrezza, tra ordine e caos, dell’incomprensibile affidato all’umano.
La minuziosa preparazione, la disciplina alla ricerca dell’armonia, si fonde con l’ebrezza dell’illusione, con l’ebrezza del miraggio e si confondano con i luoghi, con la gloria delle platee, al miraggio di infiniti traguardi.
Il libro è metafisicamente dedicato a Giacomo Leopardi, il poeta dell’infinito, che altera la dimensione della ragione e naviga verso lontane galassie, falsificando l’ordinario dell’esistere per spiccare il volo oltre le leggi della logica in un Olimpo dedicato ai pochi.
Così disse agli amici di Toscana: “Amici miei cari. Sia dedicato a voi questo libro, dove io cercava, come si cerca spesso con la poesia, di consacrare il mio dolore, e con quale al presente (né posso già dirlo senza lacrime) prendo commiato dalle lettere e dagli studi. Sperai che questi cari studi avrebbero sostenuta la mia vecchiezza, e credetti con la perdita di tutti gli altri piaceri, di tutti gli altri beni della fanciullezza e della gioventù, avere acquistato un bene che da nessuna forza, da nessuna sventura mi fosse tolto. Ma io non aveva appena vent’anni, quando da quella infermità di nervi e di viscere, che privandomi della mia vita, non mi dà speranza della morte, quel mio solo bene mi fu ridotto a meno che a mezzo; poi, due anni prima dei trenta, mi è stato tolto del tutto, e credo ormai per sempre. Ben sapete che queste medesime carte io non ho potuto leggere, e per emendarle m’è convenuto servirmi degli occhi e della mano d’altri. Non mi so più dolere, miei cari amici; e la coscienza che ho della grandezza della mia infelicità, non comporta l’uso delle querele. Ho perduto tutto: sono un tronco che sente e pena. Se non che in questo tempo ho acquistato voi: e la compagnia vostra ……… ”
Di Carlo Priolo