Già Platone suggeriva che la vita deve essere vissuta come un gioco. Dunque il gioco non è solo l’espressione di una energia in più, ma ha una qualità ed un contenuto che trovano ascolto in tutti gli studiosi della materia.
Per il bambino il gioco è una condizione di vitale importanza, un comportamento concludente, una autentica espressione di vitalità, le sue radici toccano gli strati più profondi dell’esistenza. Freud lo paragona al sogno per il suo valore catartico, la possibilità che offre di superare la realtà e modificarla fantasiosamente in termini più convenienti e accettabili. Non vale solo per il bambino per il quale il gioco, è ancora Freud a parlare, non esprime il desiderio di rimanere bambino ma esprime il desiderio di crescere, di confrontarsi con gli adulti, ma anche per l’adulto che è stato bambino ed ha scritto nella sua memoria tutti i suoi desideri, le sue aspirazioni che spesso non hanno trovato il favore del destino. E’ di capitale importanza considerare oggi il gioco, tutti i giochi, una feconda agenzia di sicurezza e cioè un istituto rassicurante, una struttura di difesa contro i pericoli della solitudine e dell’incomunicabilità. Oltre al gioco lo sport è anche sano agonismo. La rivalità è la versione socializzata dell’aggressività, la quale è un’energia umana naturale necessaria per ogni realizzazione concreta, ma suscettibile in teoria di degenerare in forme di violenza sociale, per questo lo “Statuto Etico” proposto da Francesco Zugarelli e Carlo Priolo può costituire una protezione, una Carta fondativa comportamentale valevole per tutti gli sport ed applicabile in tutti i territori fino ai confini del mondo.
Lo sport garantisce la canalizzazione di tale energia, solo potenzialmente pericolosa, in quanto gli schemi controllati della azione sportiva, le complesse conoscenze tecniche che ogni sport ha elaborato e migliorato nel tempo, lo studio e l’analisi delle componenti psicologiche dei giocatori di ogni ordine e grado, l’effetto ansiogeno della competizione atletica, che può influire sul risultato della gara e può mettere in crisi personalità vulnerabili ed emotivamente delicate, oggi sono controllate e superate dalla grandi Accademie sportive dove ogni aspetto del corpo e della mente del giocatore viene controllato e supportato con l’ausilio di professionisti che si avvalgono dei risultati della scienza in continua evoluzione. Coloro che erroneamente pensano che l’attività sportiva sia paragonabile alla forza bruta, pericoloso l’agonismo eccessivo, e che l’invito allo sport costituisce un invito a sfogare le cariche aggressive nel senso che lo sport favorirebbe la violenza, sono predicatori dai tratti patetici che vivono la drammatizzazione dell’insignificante, vinti da un narcisismo infecondo, dichiarando che fanno tutto per gli altri, ma in realtà vogliono soltanto apparire per considerarsi migliori degli altri. Lo sport è un fare e il “fare” cancella senza appello i messaggeri di paure e catastrofi. È ora di chiarire una volta per tutte il concetto che ogni tanto riaffiora ad opera di critici problematizzati da personali frustrazioni per cui lo sport sarebbe un’educazione alla violenza quando invece è soltanto il contrario. Gli impulsi inizialmente distruttivi possono mutarsi in incontri socialmente costruttivi, di collaborazione tra popoli e paesi con storie e tradizioni differenti, con forme di governo anche molto lontane che le competizioni mondiali avvicinano per favorire le mutazioni e le fusioni di quei pochi o tanti elementi comuni. Nella storia dello Sport episodi del genere sono infiniti, la forte avversione apparente sul campo di gara sottende molto spesso, quasi sempre, a reciproci sentimenti di stima di amicizia, al di là e al di sopra di ogni barriera ideologica e razziale. Per vincere non è necessario avere l’istinto dell’assassino e lo sport non è una scuola di violenza. È l’unica attività umana in cui chi la svolge deve avere talento, capacità di resistenza, umiltà di approccio alla gara, assenza di presunzione, equilibrio per saper attendere il suono di un gong o il fischio di un arbitro o il traguardo, un traguardo qualsiasi, piccolo o grande che sia, che rende gratificante lo sforzo impiegato, quel comportamento fattivo, socialmente proficuo, educato, gradito, integrato, appunto tipico della gente dello Sport.
L’impegno è quello di favorire il passaggio di milioni di sportivi spettatori in milioni di sportivi praticanti e questo sarebbe un grandissimo vantaggio per tutte le civiltà. La pratica sportiva favorisce il desiderio di avere maggiori risorse economiche, risulta efficace per la promozione sociale, migliora il sogno di provare a se stessi le proprie capacità, cercare una gloria anche minore, alla portata delle proprie forze, l’attaccamento alla Patria, al Paese dove hai avuto i natali. Negli sport svolti all’aria aperta sono individuabili due elementi motivazionali: il gusto del rischio e l’amore per la natura riconoscibili nel desiderio di provare delle sensazioni di creazione artistica, il bisogno di evadere dall’ambiente urbano sotto la pressione delle faccende quotidiane. Anche l’insicurezza del risultato o verso la propria integrità fisica esprime differenti tendenze: bisogno di uscire da una vita priva di stimoli iperprotetta, il desiderio di controllare e superare il proprio senso di paura, l’aspirazione ad elevarsi al di sopra della media per partecipare ad una specie di aristocrazia del rischio. L’individuo attraverso l’attività sportiva ricerca tra l’altro la compensazione di eventuali handicap psicofisici o un piano di azione sostitutivo in cui ottenere quelle soddisfazioni negate in altri settori ed esperienze; e la cosiddetta aggressività può manifestarsi in forma positiva costruttiva, volontà di realizzarsi, annullare quella negativa distruttiva che sovente accompagna le frustrazioni. L’abbandono, la disperazione, che pure è diffusa, non dovrebbe far parte dello Sport che è reazione sociale intesa come ricerca di contatto umano, del desiderio di diventare parte integrante di un gruppo, di un’associazione, di una squadra.
Di Carlo Priolo