Padovano, classe 1954, è Brigadiere Generale in Riserva dell’Esercito. Ha iniziato la carriera come sottufficiale paracadutista. Congedatosi, ha conseguito la laurea in Giurisprudenza ed è rientrato in servizio come Ufficiale del corpo di Commissariato svolgendo incarichi funzionali in varie sedi. In ambito internazionale ha conseguito un master presso l’Esercito USA e partecipato nei Balcani alle missioni in Bosnia, Kosovo e Albania. Giornalista pubblicista fino a pochi anni fa, è autore di numerosi articoli specialistici su materie militari e di politica internazionale. Ha pubblicato il libro “Iniziazione ai miti della storia” (ed. Mediterranee) e, più di recente, la graphic-novel “Brigate Rosse Sangue” (ed. Ferrogallico)
-Lo scorso 7 ottobre si è celebrato il 450° anniversario della battaglia di Lepanto, cui Lei ha
dedicato il suo romanzo “Lazarus” appena uscito in libreria. Ma un avvenimento così lontano e
perso nella nebbia dei secoli può suscitare ancora qualche interesse nel pubblico di oggi? -Beh, la risposta dovrebbe essere negativa dato che, in effetti, il pubblico di oggi è ormai assuefatto
agli incalzanti scenari digitali moderni, in cui tutto è creato per incuriosire e stupire. Ma se le cose
stanno così, allora credo che il lettore che si imbatta in una storia ambientata nel Mediterraneo
del XVI° secolo – el siglo de oro come dicono gli spagnoli – non avrà niente da rimpiangere quanto a
ritmo convulso, sorprese e colpi di scena, tanto più che qui si racconta di fatti veri, realmente
accaduti ed i cui resti sopravvivono ancora oggi, come ad esempio le torri di avvistamento che si
vedono in Puglia, quando le vedette gridavano “mamma li turchi”
-Che mondo era dunque il Mediterraneo del XVI° secolo o, perlomeno, come appare quel mondo
nel suo romanzo?
-Come dicevo i fatti raccontati sono veri, così come li riportano le cronache del tempo. In mezzo a
questi fatti io ho semplicemente aggiunto un elemento esterno, il protagonista, un po’ come se in
un quadro avessi dipinto una figura in più, un testimone che racconta quegli avvenimenti. Lo
scenario storico dunque è fedele ed è quello probabilmente che stupisce di più perché molti
avvenimenti sembrano del tutto romanzeschi tanto sono paradossali, come ad esempio quando il
cattolicissimo Imperatore Carlo V° – che visse addirittura i suoi ultimi anni in uno sperduto
convento dell’Estremadura – mandò contro il Papa i Lanzichenecchi che compirono il “Sacco di
Roma”, oppure quando il Re di Francia Francesco I° aiutò i Turchi a saccheggiare Nizza, o ancora la
stessa Repubblica di Venezia, che mentre era in guerra contro i Turchi, continuava regolarmente a
commerciare con loro. Il Mediterraneo del XVI° secolo era un mare troppo stretto che traboccava
di pirati e corsari. Dalle loro basi nel Nord Africa, Algeri, Tripoli e Tunisi, si spingevano contro le
coste italiane, spagnole e balcaniche [immagine 1, il corsaro Occhiali (Ulugh Ali)] dove, oltre a
darsi al saccheggio, catturavano gli abitanti per metterli come schiavi ai remi delle galee. Quando
la marineria corsara si saldò con l’espansionismo del nascente Impero Ottomano, queste due forze
unite scatenarono la guerra santa contro la cristianità.
-Questo dunque, in sintesi, il retroscena storico che portò alla battaglia di Lepanto?
-Questo il quadro nelle sue linee generali. Nel concreto però, lo scenario che porterà a Lepanto
[immagine 2, 3] è la guerra mossa dai Turchi contro Venezia con l’invasione di Cipro,
possedimento veneziano, in cui avvennero orrendi massacri tra cui quello di Famagosta, dove i
giannizzeri scuoiarono vivo il comandante veneziano Marcantonio Bragadin, la cui pelle si trova
oggi conservata a Venezia, in un’urna, nella Basilica dei SS.Giovanni e Paolo [immagine 4]. Davanti
a quella che appariva come una minaccia mortale per la cristianità, il Papa Pio V° [immagine 5]
riuscì a mettere d’accordo la Spagna e Venezia e a far radunare una flotta in grado di sconfiggere i
turchi. Non era un’impresa facile. Gli spagnoli non avevano alcun interesse ad aiutare i veneziani, e
questi ultimi avevano mille motivi per non fidarsi degli spagnoli. Alla fine però l’accordo venne
trovato, ed il comando della flotta cristiana venne affidato al venticinquenne Don Giovanni
d’Austria [immagine 6], figlio bastardo dell’Imperatore Carlo V°.
–Ha detto che in questo scenario così variegato il suo protagonista si muove come un testimone.
In quale modo però riesce ad assistere a vicende che, seppur destinate a convergere verso uno stesso punto, Lepanto, sono tra loro lontanissime, un po’ come tante strade che giungono da
direzioni diverse?
-Il protagonista è una sorta di sicario al servizio del tenebroso Consiglio dei Dieci, l’organo che a
Venezia aveva – tra gli altri – il compito di garantire la sicurezza dello Stato e che per tale ragione,
come attesta una ricca documentazione storica, si occupava anche di far eliminare personaggi
scomodi, per lo più mediante avvelenamenti, per simulare morti naturali. In questa veste ambigua
che suscita un certo timor reverenziale, si trova al seguito dei comandanti dell’armata veneziana
ed in particolare di Marco Quirini [immagine 7] e Sebastiano Venier, [immagine 8] l’ammiraglio in
capo. Viene così a conoscere i retroscena diplomatici della guerra e gli intrighi di alcuni
comandanti, che cercavano di dirottare l’armata cristiana verso obiettivi inconcludenti. Alla fine,
imbarcato sulla galea del provveditore veneziano Marco Quirini, partecipa alla battaglia che si
conclude con la distruzione della flotta turca e la decapitazione del suo ammiraglio, il Kapudàn
Pascià Alì. [immagine 9]
-Un’ultima domanda. Da dove è nato l’interesse per questo scenario storico così lontano?
-Il motivo è un po’ singolare e forse val la pena raccontarlo. Anni fa mi capitò di restare per alcuni
mesi in un posto abbastanza isolato e l’unico svago che avevo a disposizione era una biblioteca,
composta soprattutto di libri antichi. Curiosando tra gli scaffali finii con l’imbattermi in racconti di
viaggiatori del XVI° secolo e, leggendone uno, mi accorsi di vivere quel che si dice un déjà vu,
qualcosa di molto netto, come se andassi improvvisamente recuperando dei ricordi che certo non
potevano appartenermi, eppure che sentivo come miei. Una sensazione quasi fisica, come se un
passato ormai dimenticato volesse riemergere. Che dire? Un’esperienza abbastanza sconvolgente,
intorno alla quale non so nemmeno io quale giudizio dare, e che lascio quindi volentieri a quelli
che vedono di qua ma forse – chi può saperlo – anche di là
Stefano Bianco