Sono quelle case del borgo medioevale, arroccato sulla piccola altura a strapiombo sulle gole del fiume Treja, e quelle cascate di acqua fresca d’estate e gelida d’inverno, che hanno attratto la mia attenzione,
tanto da fermare su queste pagine l’emozione da me provata e il disagio per le varie iniziative private che hanno alterato il ricordo in me di questi posti.
Mazzano Romano nel fresco della natura
L’incanto di Matianum, dista da Roma una quarantina di chilometri.
Il paesaggio è caratterizzato da forre tufacee, cascate, grotte, rivoli, camminatoi segreti scolpiti nel tufo in epoca arcaica dove la flora e la fauna si difendono da soli. Mazzano Romano è sfiorato, sia dalla via Francigena sia dalla via Amerina, la strada consolare costruita dai Romani nel III secolo a.C., che attraversava l’ager faliscus per giungere ad Amelia, in Umbria.
Mazzano – particolare del borgo
La via Amerina, è stato il collegamento bizantino tra l’Impero romano d’Oriente e il ducato longobardo di Roma, per poi essere abbandonata con l’unificazione dei domini longobardi e bizantini, che preferivano utilizzare la via Cassia e la via Flaminia per i collegamenti con il patriarchio lateranense.
La via Amerina a Tre Ponti Cavo degli Zucchi
Sembrerebbe svanita la buona intenzione, firmata nel 1982, di salvaguardare questo patrimonio ambientale con l’istituzione del Parco Suburbano della Valle del Treja, che comprende sia Mazzano
Romano sia il borgo di Calcata, il borgo degli artisti.
Mazzano, particolare con balconata nel borgo antico
Le tombe a camera, a pozzo, e quelle scavate sulla rupe tufacea indicano sia presenze etrusche sia di altre etnie, già nella tarda Età del ferro. Provenienti dall’Argolide, insediati a Falerii Veteres, erano queste le presenze dei Falisci.
Menzionati dallo scrittore Strabóne, la storia dei Falisci è legata a quella degli Etruschi dei quali diventano ben presto alleati e, a partire dal V sec. a.C. iniziano insieme, le lotte contro Roma. La vicinanza dei Falisci con gli Etruschi, è tale da essere inclusi da Tito Livio, tra i popoli etruschi partecipanti ai concili federali delle dodici Nazioni dello Stato dell’Etruria presso il Fanum Voltumnae, il santuario nazionale degli Etruschi situato nei pressi di Tuscania.
A est di Mazzano Romano, si notano i ruderi di un insediamento falisco del IX secolo a.C., l’insediamento di Narce, dall’impronta etrusca, e molto più antica di quella di Falerii Veteres.
Narce, l’inquietudine di un volto scolpito
L’abbondanza di sepolture riferibili all’età del Ferro a Narce, fa intendere l’importanza e la grandezza di ciò che non sarà più chiamato insediamento ma città prestigiosa etrusca.
Narce – ruderi del borgo rupestre
Gli scavi archeologici dell’Ottocento, vennero effettuati nelle
proprietà del duca Filippo Massimiliano Del Drago Biscia Gentili, II principe di Mazzano ed Antuni (Roma, 4 marzo 1824 – Roma, 21 aprile 1913) e sposo di Maria Milagros Muñoz y Borbon, marchesa di Castillejo.
Narce – scavi archeologici
Gli scavi vennero effettuati attorno al feudo di Mazzano del duca Filippo, e al feudo di Calcata della duchessa Maria Ignazia Massimo, figlia di Emilio (1835-1907) III duca di Rignano e Calcata e di Teresa Doria Pamphilj Landi dei Principi di Melfi.
Maria Ignazia Massimo, (Albano 30-7-1859 – Albano 27-10-1916), IV duchessa di Rignano e Calcata, portò il titolo di duca al marito Prospero Colonna. Le proprietà dei due nobili, coincidevano con l’estensione dei territori dei due comuni di Mazzano e di Calcata. Indagini archeologiche condotte nelle vicinanze del fiume Treja in località Narce hanno scoperto numerose statuette e teste votive, oltre ad appurare la conoscenza dei più antichi riti di fondazione, che hanno portato la terra italica al risveglio dalla notte della preistoria.
Museo Civico Archeologico di Narce
Vengono rinvenute ventidue necropoli distribuite sui pendii circostanti i tre nuclei dell’abitato: Narce, Monte Li Santi e Pizzo Piede.
A La Petrina viene addirittura scoperto un Tempio, il cui scavo del 1891 venne inspiegabilmente interrotto.
Le antichità di Narce, rinvenute dagli archeologi e dagli affiancatori tombaroli, vengono esposte nel 1892 nel grande emiciclo del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia e vengono incluse nella guida archeologica “Italia Antica: Dall’Età Paleolitica agli Etruschi e Romani” di Alessandro Della Seta, che costituisce la prima edizione, di quello che sarà il Catalogo-Presentazione dei materiali provenienti dalla necropoli, dal titolo “I Tufi di Narce”. Sarà solo l’avvento della Seconda Guerra Mondiale a comportare lo smontaggio delle vetrine e il definitivo immagazzinamento dei materiali.
Gli scavi si concentrarono a partire dal febbraio del 1933 sul pianoro di Pizzo Piede e portarono alla scoperta di un santuario della città di Narce, di tracce delle mura di difesa dell’abitato, della via lastricata d’accesso, oltre ad alcune evidenze funerarie.
La via Narcense lungo il Treja attraversa sentieri antichi a Pizzo Piede e a Monte Li Santi
Oltre alla via lastricata, venne identificata la via Narcense che è tutt’ora l’antica strada lungo la valle del Treja, tra i boschi, che collega, Narce con Falerii Veteres, capitale dell’Ager Faliscus.
Altro tratto della via Narcense nel bosco
Tra il 1962 e il 1963 si consuma uno scempio archeologico che danneggerà per sempre il prestigioso sito di Narce, il più antico della zona. Si tratta della costruzione della strada provinciale 17/b Mazzano – Calcata. Gli ingenti lavori per la costruzione della strada, portarono a sventrare con profondi sbancamenti, ottenuti mediante l’utilizzazione di dinamite, la necropoli de La Petrina in corrispondenza del nucleo sommitale, e comportarono la distruzione del viadotto etrusco di collegamento tra Narce e Monte Li Santi.
Costruito presumibilmente nel corso del VI secolo a.C., questo poderoso monumento di ingegneria e di urbanistica, costruito in blocchi di tufo perfettamente squadrati, alto in origine più di quaranta metri, conservava una cospicua porzione rivenuta “intatta e ben
conservata” al tempo dei primi scavi di Narce.
Eppure, nell’agro falisco, vennero rinvenute le capanne dell’età del bronzo, una necropoli ed una opificio per la lavorazione delle tegole di età repubblicana. Il quadro dei ceramisti del VII secolo a.C. è arricchito a partire dal 1974 dalle scoperte di pitture riconducibili al pittore di Narce.
Narce, Testa votiva in terracotta rossa
La bravura del ceramografo di Narce, si riscontra nel rinvenimento sul mercato antiquario di pregevoli opere per un totale di dodici vasi, sottratti dalle necropoli di Narce.
Alcuni rari ceramisti con bottega nelle aree di Mazzano Romano e di Calcata ancora oggi usano le antiche tecniche vecchie di secoli, lavorano la creta, l’argilla, vengono chiamati pignattari, poiché specializzati nel modellare le pignatte al pari dei vasai etruschi chiamati figuli, che modellavano la ceramica rossa.
Narce, maschere votive
Il colore rosso è dato dai minerali di ferro che sono contenuti nella “terra” che si ossidano con il calore. Oggi l’arte della terracotta si esprime non solo attraverso oggetti di uso quotidiano, utilizzati
con un’accezione moderna, ma anche attraverso l’arredamento, con oggetti che richiamino alla mente atmosfere ed ambienti perduti o dimenticati.
Narce, Vaso a pittura rossa
È antichissima la consuetudine di modellare con l’argilla il vasellame, i mattoni, le tegole e le statuette votive. Le prime testimonianze risalgono al periodo Neolitico della zona, e accompagnano lo sviluppo delle civiltà preistoriche. Apprezzata dagli Etruschi e dai Romani, la terracotta non venne mai veramente trascurata in epoca medioevale, per essere poi riscoperta e impiegata in larga scala al principio del Rinascimento. La pratica della terracotta dipinta e invetriata come nelle anfisse etrusche, ebbe il suo naturale luogo di azione nelle vitali e dinamiche botteghe rinascimentali. Nel corso dei vari secoli, la tecnica della lavorazione della terracotta è rimasta sostanzialmente invariata.
Vaso eseguito dal Pittore di Narce così chiamato poiché l’artista non ha firmato
nessuna sua pregevole opera
Anche se dall’Ottocento in poi, le industrie hanno dato un forte incremento e una diversificazione della produzione degli oggetti in terracotta. La terracotta o ceramica, poiché il termine deriva dal greco Keramos cioè argilla, deriva appunto da questo materiale naturale
che ci offre la terra e molto diffuso.
L’argilla può essere considerata uno dei simboli dei quattro elementi della Natura stessa, infatti abbiamo la terra ovvero l’argilla che ci da la materia prima, l’acqua con cui viene lavorata per poi essere plasmata, l’aria che serve ad asciugarla e ad indurirla, ed infine il fuoco, che riesce con la sua forza, a renderla forte e resistente.
Narce, Olla biansata
L’argilla è uno dei materiali più semplici e poveri, e si trovano in natura, gli etruschi la chiamavano il dono degli dei. Mescolata con l’acqua, si può modellare facilmente, e grazie a ciò è stata usata anche dall’uomo della preistoria, per ottenere degli oggetti utili per la loro vita sociale quotidiana. In epoche remote, gli oggetti e i manufatti creati con l’argilla, venivano fatti asciugare “crudi”, all’aria aperta.
La pratica e l’esperienza fecero scoprire a quegli antichi “artisti” che questi oggetti, se venivano cotti in forni appositi, o anche su fiamma viva, riuscivano ad essere molto più resistenti e che quindi si potevano decorare meglio perché il colore non si spandeva su tutta la superficie della loro creazione. I colori potevano essere applicati direttamente sull’argilla cotta, e le forme potevano essere molto più raffinate.
Al materiale che usciva da questo nuovo procedimento che era la cottura, fu dato il nome di “terracotta”.
Numerosi musei stranieri mostrano le ricchezze del vasellame rinvenuto nelle necropoli di Narce, dal Danish National Museum di
Copenaghen al Deutsches Archäologisches Institut di Roma, dalle collezioni etrusche del Chicago Field Museum ai magazzini segreti del Museo Etrusco di Villa Giulia.
La ricchezza di Narce si esplica anche nei reperti dei materiali bronzei della serie dei Prähistorische Bronzefunde, molti dei quali presero il volo per il Museo Nazionale di Berlino. Le tipologie delle spade, dei coltelli, dei rasoi, delle patere baccellate in bronzo, degli strigili, delle asce, delle brocche e delle statue, contemplano la cospicua parte dei rinvenimenti ottocenteschi dalle necropoli di Narce e da quelle dell’Agro falisco. Nell’inverno del 1985 vengono alla luce nella valle delle Rote, alle pendici di Monte Li Santi, dopo le profonde arature dei contadini, i resti di numerosissimi blocchi di tufo e frammenti architettonici e fittili.
Narce, resti del Tempio Santuario a Monte Li Santi
I primi sondaggi di scavo della Soprintendenza, tra il 1985 e il 1986, portano alla luce i resti di un complesso monumentale di alto valore storico: il Santuario Falisco ovvero, del Santuario federale dei Falisci, sacro a Giunone Curite.
Narce, reperti del tempio distrutto
Nella necropoli di Monte Cerreto, dalla campagna di scavo inglese, viene rinvenuta la “tomba degli ori”, ed il materiale in parte viene conservato al British Museum di Londra, e gli ornamenti e gli “ori”, vengono conservati al Museo Etrusco di Villa Giulia.
Le iscrizioni in etrusco a Narce, ipotizzano la presenza, stabile nel tempo, di una enclave etrusca, in particolare legata all’abitato di Pizzo Piede, nelle cui necropoli si concentra la maggior parte delle iscrizioni.
Narce, bucchero in argilla
Nelle necropoli di Narce prevale il rito incineratorio che perdura nella
fase avanzata dell’età del ferro, oltre al reiterarsi di alcune azioni nei rituali della deposizione, distinti fra i generi.
Le caratteristiche straordinarie delle sepolture ad incinerazione specialmente di un cavaliere armato permettono di comprendere le incinerazioni di matrice eroica, caratterizzate dalla presenza di armi, scudi, elmi, a Narce ed in altre necropoli dell’ager falisco. Attorno a Narce si estendono diversi nuclei di necropoli le cui tombe hanno restituito una grande quantità di reperti, oggi custoditi all’interno del Museo Nazionale dell’Agro Falisco di Civita Castellana.
L’occupazione dell’ager da parte dei romani, iniziata in età repubblicana, durò fino al I secolo d.C.; dopo iniziò una lenta diminuzione degli insediamenti. Fino al VI secolo d.C. l’assetto sociale agrario dell’ager faliscus è costituito da masserie e insediamenti rustici senza una vera e propria organizzazione urbana. Nel 750, in un antico fondo del patriziato Matius, dove sorgeva la chiesa di Sancti Mariae, l’attuale Santa Maria di Castelvecchio, si agglomeravano varie famiglie rurali scampate alla malaria.
Ruderi di Santa Maria di Castelvecchio – Mazzano Romano
In seguito quel villaggio si sarebbe chiamato Mazzano Romano.
Per evitare lo spopolamento e l’abbandono della campagna circostante papa Adriano I (772-795), nel 780, vi insediò una Domus Culta, cioè una colonia agricola, i cui prodotti erano destinati ad alleviare le condizioni di indigenza della popolazione romana.
Di questo fondo agricolo, chiamato Capracorum, da cui Caprarola, fece parte Calcata mentre risulta incerta la partecipazione di Mazzano Romano poiché tutti gli abitanti del fondo agricolo e di Capracorum vennero accolti nel borgo alto di Mazzano stesso, a causa della malaria che mieteva vittime nelle aree più giù a valle.
Tra il IX e il X secolo, le scorrerie di bande saracene nell’ager faliscus causarono una trasformazione dell’assetto organizzativo del territorio con lo spostamento degli insediamenti abitativi su speroni e promontori rocciosi, che per la loro posizione erano più facilmente difendibili.
Elmo crestato saraceno – Mazzano
L’occupazione dei luoghi più muniti fu favorita da Alberico, princeps di Roma, che secondo Benedictus monachus, dal padre Alberico di Spoleto, ereditò solo la bellezza dei lineamenti: “… vultum nitentem sicut pater eius” (Chronicon, p. 167). La casa dove nacque si trovava sull’Aventino. Alla morte di Alberico di Spoleto nel 920, Marozia, la mamma del giovane, non era stata in grado di garantirgli l’accesso ad una parte almeno dell’eredità paterna. Andando sposa ad Ugo di Provenza, aveva creato una situazione per cui anche il retaggio politico della sua famiglia minacciava di essere perduto. Per cui Alberico, passò al ramo ereditario del nonno materno Teofilatto, e non si tratta quindi storicamente di Alberico II poiché al nostro, gli venne assegnata la discendenza materna e non paterna.
Alberico, per rendere invulnerabile dagli assalti arabi queste aree abitate, creò una barriera fortificata fatta da torri, mura e castelli.
Il più antico di questi castelli fu proprio quello di Mazzano Romano.
Castello – Mazzano Romano
Alberico, principe patrizio, nipote di Teofilatto senator Romanorum, lo donò, il 14 gennaio 945, al Monastero dei Santi Andrea e Gregorio al Celio, che ne mantenne la proprietà fino al XVI secolo.
Si è conservata una copia della pergamena attestante la donazione all’abate Benedictus, sottoscritta da tutti i membri della famiglia del senatore dei romani.
Quando nel 1526, papa Clemente VII de’ Medici, concesse che i beni dei monaci nel territorio di Roma potessero essere venduti senza restrizioni, la famiglia degli Anguillara acquistò il castello di Mazzano Romano con Monte Gelato e Castelvecchio. Nel 1559 il borgo venne ceduto al giovane Lelio Biscia e a suoi quattro fratelli, figli di Bernardino Biscia, avvocato concistoriale.
Lelio Biscia venne nominato cardinale da papa Urbano VIII il 19 gennaio 1626. Il 9 febbraio dello stesso anno, a 67 anni, ricevette la diaconia dei Santi Vito e Modesto di Roma; da questi passò, per successione a Ortensia Del Drago Biscia, figlia di Faustina Biscia. Nel XVII secolo, in seguito all’afflusso di popolazione dai castelli vicini, si riscontrò un aumento demografico con conseguente ampliamento del paese.
Stemma della famiglia Biscia
Ben più consistente fu però l’ampliamento verificatosi nel Novecento: la legge 445 del 1908, prevedeva che le abitazioni vetuste, considerate malsane, avrebbero dovuto essere abbattute e gli abitanti trasferiti in nuove case costruite in luoghi più sicuri. Quella legge venne attuata solo in parte con la costruzione di nuovi edifici, mentre la parte antica non venne “miracolosamente” toccata e anzi, molte case del Trecento e del Quattrocento sono state restaurate dai nuovi proprietari.
Mazzano, per le vie del borgo
Il borgo di Mazzano Romano, è caratteristico per le sue stradine tortuose e ripide, per gli scalini rudimentali, per i muri a secco, per gli archi da casa a casa, per i vasi di gerani rossi ad abbellire il borgo, per le case realizzate in tufo ambrato. Rimangono visibili alcune rovine della seicentesca Chiesa di San Nicola, edificata dal Vignola, Jacopo Barozzi, ideatore ed architetto del castello-fortezza di Caprarola.
Nella foto del 1930 ancora è riconoscibile la chiesa
Ciò che rimane della chiesa dedicata a San Nicola, si affaccia sulle gole del fiume Treja, poiché la chiesa venne demolita ignobilmente nel 1940 perché ritenuta pericolante.
L’edificio poggia sul poderoso contrafforte ad archi; la facciata è con
capitelli dorici, semplice ed elegante, mentre il campanile, che era alto 25 metri, venne rovinato da un fulmine. Alcune foto riportano gli interni della chiesa: nel secondo altare di destra, c’era un grandioso affresco del Cinquecento, che raffigurava la “Decollazione di San Giovanni Battista”, mentre sull’altare maggiore si ammirava “L’ultima cena”. San Nicola, titolare della chiesa, era raffigurato in un trittico insieme a San Benedetto e nel centro, il Salvatore.
Il santo di Bari, qui a Mazzano, si festeggia la prima domenica di settembre, mentre la sagra della salsiccia e della bruschetta il 17 gennaio; la sfilata dei carri allegorici, l’ultima domenica di carnevale. Il Palazzo Baronale ha subito una manutenzione libera e distruttiva in questi ultimi tempi; hanno resistito ai nuovi vandali, le basi dei bastioni sul fianco occidentale con feritoie e aperture utili all’epoca degli assalti e delle aggressioni delle orde barbariche per il lancio balistico, ed ha resistito lo stemma dei Biscia sull’arco d’ingresso del paese, portale del XVII secolo e, nella parte posteriore una piccola loggia con colonnina centrale.
Loggia a bifora gotico lombardo in peperino
La loggia gotico-lombarda a Mazzano Romano, evidenzia l’influenza papale ed imperiale nei secoli XI e XII in tutto il viterbese. Sono gli elementi architettonici che parlano di quel periodo medioevale dove ogni simbolo ha il suo preciso significato allegorico. Anche qui il non rispetto di ciò che ci è stato tramandato e che andrebbe conservato e mantenuto, è evidenziato dai fili elettrici che segnano la prestigiosa loggia e dal non restauro della colonnina di destra che risulta troncata da parte del capitello fin giù alla base.
Per l’antico borgo di Mazzano
All’interno del castello si trova una via ad anello, lungo la quale costruzioni tardo medievali e rinascimentali ricordano il florido passato e la vetustà del posto.
Piazzette improvvise nel borgo di Mazzano
Intorno al palazzo alcune case nobili del rinascimento tramandano ancora il nome del proprietario e la data di costruzione, facendoci immaginare i fasti dell’epoca.
Mazzano, antico ponte sul Treja
Fuori dall’abitato, nei pressi delle cascate di Monte Gelato, oltre ai
ruderi della domus del I sec. d.C. di Gaio Valerio Fausto, mercante di buoi e capo degli ufficiali addetti al culto di Cesare Ottaviano Augusto a Veio, c’è quanto rimane del Mulino ad acqua dell’XI secolo inserito, per protezione, in una torre dell’anno 1000 e raccordato ad un’altra della stessa epoca medioevale.
Mola di Monte Gelato sul fiume Treja
La giovane patrizia Cata Galla, nel 499, in onore ed in ricordo del Battista, fece edificare la chiesa di Sancti Iohanni Baptistae de la Tregia, antico nome del fiume Treja, giusto nel fondo Tarega, nei pressi delle cascate. Nell’815, alla morte di papa Leone III l’aristocrazia la fece incendiare, saccheggiare e demolire.
A Roma, Cata Galla, fondò sia il Monasterium di Sancto Stephani sia l’Oratorium S. Stephani a sancto Petro che venne chiamato Maiorem. Cata Galla era figlia di un patrizio romano, Quinto Aurelio Memmio Simmaco che, in seguito agli eventi successivi al crollo dell’Impero Romano d’Occidente, riuscì a mantenne buoni rapporti con i nuovi sovrani barbari.
La sua riconosciuta tranquillità caratteriale gli fece guadagnare varie cariche prestigiose: prefetto nel 476, console nel 485 e capo del senato nel 500, fino alla rottura con il re dei Goti, Teodorico, che lo fece condannare a morte a Ravenna nel 525, per infondati sospetti di tradimento, insieme a Boezio. La giovane Cata Galla fu data in sposa ad un ragazzo patrizio, che morì dopo appena un anno dalle nozze.
La vedova non volle più risposarsi e si ritirò in un monastero nell’area romana dell’antica chiesa di San Pietro, in Vaticano.
Fulgenzio di Ruspe la incoraggiò nella sua decisione scrivendole un trattato su: De statu viduarum, Lo stato delle vedove.
Dopo una vita dedita all’aiuto dei bisognosi, morì nel 550. Ebbe gli onori dell’altare con il titolo di Santa Galla. “A Roma, santa Galla, che, figlia del console Simmaco, alla morte del marito si dedicò per molti anni presso la chiesa di San Pietro alla preghiera, alle elemosine, ai digiuni e ad altre opere sante; il suo beato transito è stato narrato da papa san Gregorio Magno“.
Verso la metà del sec. XVII, Marcus Antonius Anastasius Odescalchi, cugino di Innocenzo XI, fece edificare un ospizio di carità intitolato alla santa, dove vennero raggruppati in una speciale associazione i sacerdoti dediti ad opere di apostolato tra le classi più umili.
Il fiume Treja con alcuni ruderi della fortificazione delle Mole
Il fiume Treja, prese l’attuale denominazione dal fondo Terega, è lungo trentotto chilometri, scorre completamente nel Lazio, sgorga dal Monte Lagusiello nel Comune di Trevignano, sui Monti Sabatini,
bagna le province di Viterbo e Roma e termina il suo corso, essendo il terzo affluente del Tevere dopo il Paglia e il Nestore, all’altezza di Civita Castellana.
Le cascate di Monte Gelato
Proprio a Monte Gelato – che viene scritto separato – nel territorio comunale di Mazzano Romano, il corso del fiume insinuandosi in una stretta valle ricca di vegetazione ed angoli assai suggestivi, forma delle cascate naturali molto suggestive.
Le prime tracce significative di insediamento dell’area, dopo le frequentazioni preistoriche, appartengono ad una domus romana del I secolo a.C, nel periodo di Cesare Ottaviano Augusto. L’utilizzo del fluire impetuoso dell’acqua a cascata va fatto risalire all’epoca romana con la Mola di Monte Gelato, utilizzato in epoca medioevale viene ereditato dalla famiglia Del Drago, che lì aveva ancora un suo feudo; il mulino ad acqua venne poi riutilizzato nel 1830 e rimase attivo fino agli anni Sessanta del Novecento, per poi essere abbandonato.
È dopo le cascate, l’antico lavatoio all’aperto dove le donzelle portavano a fiume i panni da lavare ed asciugare e dove pudicamente
si lavavano.
Bagni nel Treja
Il bosco tutto intorno è formato da lecci, aceri, querce, roveri, pioppi, salici, ontani, olmi, cornioli, noccioleti, oliveti e vigneti, oltre ai muschi, alle felci e ai licheni italici.
In epoca medioevale Mazzano Romano, era noto per la coltivazione del lino e della canapa, da cui si ricavavano panni venduti a San Biagio del mercato alle falde del Campidoglio.
La fauna è principalmente formata da fagiani, lepri, cinghiali, tassi, anatre, civette, picchi, istrici, poiane e barbagianni, oltre alle tartarughe, ai gamberetti diafani, alle gambusie e al granchio di fiume.
Sentieri comodi da percorrere con cautela
Guardando lo scorrere del fiume Treja, sulla sponda sinistra segue un comodo passaggio naturalmente lastricato che, superate le cascate si restringe e si arrampica sul costone tufaceo. Questo tratto è stato sistemato con scalini e corrimano per agevolare il passaggio.
Passaggi muschivi ed algosi con rivoli d’acqua
Superato questo tratto, si attraversa una zona ricca di acque sorgive e rivoletti d’acqua che rendono un po’ fangoso il passaggio che porta ad un piccolo affluente che provene dal vascone a bocchettoni della Fonte Salsa, conosciuta come Fonte di Virginio.
Dicono che l’acqua sia inquinata
Il Codacons denuncia l’incredibile situazione dei Comuni del viterbese, dove circa 100 mila ignari abitanti hanno bevuto per anni, acqua con arsenico e fluoruri, dovuti ai pesticidi usati nell’agricoltura locale.
“Chiare, fresche et dolci acque, ove le belle membra pose colei che sola a me par donna…” scriveva Francesco Petrarca!
Riflessi nel Treja
È una bella passeggiata in mezzo al bosco e si costeggia il fiume. Il sentiero incrocia un percorso più ampio. A mezza costa sulla collina, si riconoscono i segni di arcaici terrazzamenti in pietra e il sentiero è spesso scavato nel tufo; si scende nuovamente ed usciti dal bosco appare un ampio pascolo.
Il Treja avanza tra le rocce vulcaniche
A pochi chilometri dalle cascate di Monte Gelato c’è un ponte di legno che permette il collegamento tra le due sponde, in fondo al sentiero, ed assicura l’attraversamento del Treja permettendo di
ammirare la rupe tufacea di Calcata, il borgo medievale che ha mantenuto, nel corso dei secoli, l’impianto urbanistico originario ed è uno dei pochi gioielli che la storia ci ha consegnato integro e ottimamente conservato, meta di artisti, letterati, poeti e artigiani desiderosi di preservarlo dalle minacce del nostro tempo, all’insegna
della rinascita turistica e culturale.
Ponte di legno per arrivare a Calcata
Marie-Henri Beyle (1783-1842), conosciuto come Stendhal, l’ha definita: “Una reliquia unica al mondo”, raccolta su una rupe circolare di tufo giallastro.
Calcata, sorge su una formazione tufacea che risale all’ultima eruzione vulcanica dell’attuale lago di Vico.
Calcata arroccata sul tufo
Questo territorio, segnato da presenza umana già dal periodo preistorico, conserva tracce di importanti città e necropoli etrusco-falische: Pizzo Piede, Monte Li Santi e Narce.
È indiscussa la presenza di ruderi sparsi nei dintorni di Calcata e sono evidenti le rovine della città di Narce, posta sullo sperone tufaceo
opposto a Calcata e ai cui piedi sorge il tempio falisco, e la Necropoli di Pizzo Piede, situata su un vasto altopiano da cui si aprono splendidi panorami verso il Monte Soratte e la Valle del Tevere.
Proprio lungo il sentiero per Pizzo Piede, è un alto terrazzamento
etrusco, a mo’ di torre di vedetta. Gli scavi archeologici hanno riportato alla luce antiche vie di comunicazione, mura di difesa, santuari, templi e relative necropoli. La conquista romana della città etrusca di Veio segna l’assimilazione culturale a Roma di tutta l’area falisca intorno al 241 a.C.. La crisi dell’Impero Romano d’Occidente coinvolse questo territorio che però fu spesso rifugio sicuro durante il periodo di invasioni da parte di Goti, Bizantini, Longobardi e Saraceni.
Portale d’ingresso nell’antico borgo di Calcata
Le prime notizie certe di Calcata le ritroviamo a partire dal 780 d.C. quando, come si legge in un documento papale, venne incorporata nella Domus Culta Capracorum. Un secondo documento risale al 974 e riporta la donazione di un castello all’abate del Monastero di San Gregorio Magno di Roma.
Dal 1180 i Sinibaldi divennero proprietari di molte terre nella zona e nel “Liber Censuum” del 1192, Calcata viene individuata come “Castrum Sinibaldorum”. Nel 1266 fu concesso dal papa francese Clemente IV, Gui Foucois Le Gros, dei Prefetti di Vico il diritto di investitura di Nepi, Civita Castellana e Castrum Sinibaldorum ovvero, di Calcata.
Il papa morì a Viterbo il 29 novembre 1268. Il borgo di Calcata, coinvolto nella lotta tra Guelfi e Ghibellini, decadde al punto che nel 1291 un esattore papale, Lanfranco di Scano, lo descrive come un rudere che i nuovi proprietari, gli Anguillara cercavano di riedificare.
Si riconosce la merlatura ghibellina del Castello di Calcata
Danno l’avvio alla ristrutturazione del castello e all’edificazione del Palazzo Baronale degli Anguillara, che si affaccia sulla piazza Vittorio Emanuele II, recentemente restaurato. Il Palazzo negli anni ha accolto: la scuola Elementare, l’Ufficio Postale, l’Ambulatorio Medico, mentre nella sala principale si sono svolti i pranzi nuziali di quasi tutti i cittadini. Nella Piazza al numero civico 5 c’era il Palazzo
del Municipio di Calcata, oggi sede del Centro Visite del Parco Valle del Treja.
Nel 1557 si verificò l’evento più importante della storia religiosa di Calcata: il rinvenimento del reliquiario d’argento dorato, contenente il Sacro Prepuzio di Cristo, trafugato dal Sancta Sanctorum della basilica di San Giovanni in Laterano da un lanzichenecco, soldato mercenario tedesco arruolato nell’esercito del Sacro Romano Impero dell’area germanica, durante il Sacco di Roma.
La reliquia, nascosta in una grotta dal soldato a Calcata, sarebbe
stata rinvenuta solo trenta anni dopo da un abate che l’avrebbe consegnata a Maddalena Strozzi, moglie del signore del luogo, Flaminio degli Anguillara. La tradizione riporta che solo una fanciulla innocente e pura, la giovanissima Clarice, figlia di Maddalena, fu in grado di aprire l’involucro che racchiudeva la
reliquia del sacro prepuzio, per consentirne una degna sistemazione.
Reliquario del Sacro Prepuzio
Il sacro prepuzio verrà custodito nella Chiesa del SS. Nome di Gesù a Calcata, per il quale papa Sisto V concesse l’indulgenza plenaria.
Il prezioso Reliquiario che lo conteneva, venne realizzato nel 1585, mentre si sarebbe dovuto attendere il 1635 per la decorazione dell’altare destinato a conservarlo.
Chiesa del SS. Nome di Gesù a Calcata
Lo attesta una lapide murata lungo la parete sinistra che ricorda la generosa donazione, fatta dal cardinale spagnolo Baldassarre
Moscoso de Sandoval de Castro della famiglia del barone di Bollita, Nova Siri, don Diego Sandoval de Castro, ucciso nel 1546 quattro mesi dopo l’uccisione della poetessa Isabella Morra.
Lapide commemorativa del Reliquiario del 1585 donato dal cardinale Baldassarre Moscoso de Sandoval de Castro
Anche Paolo Canozzi, mecenate emerito, intervenì a sue spese affinché la reliquia fosse degnamente custodita.
La cappella conserva intatta la ricca decorazione seicentesca, con motivi ornamentali, rilievi e figure. Il programma iconografico, culminato dalla Resurrezione nella volta, propone scene relative alla nascita, all’infanzia e ai simboli della Passione, con scene della vita terrena di Gesù e alla sua incarnazione della quale era tangibile testimonianza la reliquia conservata al centro dell’altare.
Si tratta di stuccatori appartenenti ad una unica bottega che ripropongono modelli desunti dalla decorazione romana cinquecentesca, fedelmente riproposta, in scala ridotta, nel presbiterio della piccola chiesa di Calcata.
Interno della chiesa del Santissimo Nome di Gesù a Calcata
Anche l’altare, ricco di stucchi e marmi pregiati, è stato progettato sull’esempio di altri altari romani realizzati tra gli ultimi decenni del Cinquecento e i primi del Seicento. Di particolare pregio è l’alzata in scagliola con una preziosa tarsìa in marmi bianchi, colorati e porfido rosso, con alabastro e lapislazzuli, al centro della quale è simulata
un’edicola dove era custodito il pregevole antico Reliquiario.
Di questo ci resta una descrizione accurata che “per memoria” voglio qui riportare: “Del prezioso oggetto resta oggi solo la documentazione fotografica del rovescio e del verso dritto, realizzata nel 1957 a corredo della scheda di catalogo ministeriale redatta nel 1958 da Ilaria Toesca”. La minuziosa descrizione stesa dalla studiosa della Storia dell’Arte, dà conto della qualità del manufatto, costituito da due slanciati angeli in argento dorato dalle lunghe tuniche morbidamente avvolgenti, i capelli raccolti in un nodo sulla fronte e le piccole ali spalancate, sorreggenti con un braccio alzato un preziosissimo vasetto, chiuso da una corona regale e ornato da numerose pietre preziose tra cui un grande smeraldo circondato da tre smeraldi più piccoli, rubini
e diamanti. Nella scheda viene anche ricostruita la storia del manufatto, non ritenuto l’originale tardo-cinquecentesco, ma un nuovo e più prezioso reliquiario voluto dal cardinale Camillo Cibo. In realtà, secondo quanto riportato dallo storico Giovanni Marangoni, il cardinale Cibo, particolarmente devoto al culto delle reliquie che aveva raccolto numerose nella sua cappella privata, nel 1723 si era recato a Calcata per venerare anche la reliquia di Gesù, meravigliandosi che “…sì prezioso tesoro si conservasse in un tenue vasetto d’argento di poco valore, sostenuto da due Angioletti parimente d’argento”. Perciò il cardinale aveva chiesto al conte degli Anguillara, signore di Calcata, e al vescovo Giovanni Francesco Tenderini di potere fare a sue spese un ricettacolo più prezioso,
conservando, in cambio, il vasetto antico che, per avere contenuto una tale reliquia, era degno di figurare nella sua raccolta.
A Roma, il cardinal Cibo commissionò ad un gioielliere “…un nuovo Reliquiario d’oro, ricoperto tutto di gioje preziose, per collocarvi la Sagra Reliquia; e perché questo fermare doveasi fra gli due Angioletti sopradetti…” il vescovo Tenderini andò a Calcata, tolse la reliquia dall’antico vasetto, la collocò in una pisside e mandò a Roma il reliquiario vuoto, chiuso in una cassettina sigillata.
Quando monsignor Cibo aprì il ricettacolo, ne uscì un soavissimo profumo sprigionatosi da alcune particelle ancora presenti: anche queste furono devotamente raccolte, mentre a Calcata tornava il reliquiario con i due angioletti originali che sostenevano il nuovo e più prezioso contenitore.
Nel frattempo, papa Benedetto XIII aveva deciso di restaurare la chiesa, avendo rinnovato, nel 1724, la concessione dell’indulgenza
plenaria perpetua nel giorno della Circoncisione di Nostro Signore Gesù Cristo.
Il reliquiario contribuisce ad arricchire la conoscenza del patrimonio orafo centro-italiano della seconda metà del Cinquecento.
Nel 1632 viene costruito il grande silos, conosciuto come il Granaio, ma venne inaugurato dai baroni degli Anguillara con il nome “Monte Frumentario”; nonostante sia segnato nei documenti Vaticani con il nome di “Granarone“, così come attualmente è conosciuto.
Il silos, erogatore del grano per la farina, è stato attivo fino al 1950, dopo questa data è iniziato il degrado. Il granaio è stato salvato dal degrado grazie all’intervento di un mecenate dei Paesi Bassi, che ha finanziato i lavori di restauro.
Gli Anguillara possiedono Calcata fino al 1734, anno in cui Carlo degli Anguillara vende il feudo a suo zio Fabrizio Sinibaldi. È con i Sinibaldi che il Castello di Calcata del XIII secolo, viene ampliato, restaurato e viene realizzato un giardino pensile, appena fuori porta.
Nel 1805, alla morte di Cesare Sinibaldi, il feudo passa alla famiglia Massimo dei Duchi di Rignano, che nel 1816 rinuncia ai diritti baronali e successivamente, nei primi decenni del 1900, la proprietà passa ai privati tra i quali Giovanni Ferrauti. Dopo il terremoto di Messina del 1908 alcuni paesi vengono giudicati poco sicuri e una legge decreta l’abbandono e la demolizione delle case di borghi ritenuti a rischio. Il commendator Giovanni Ferrauti, che nel 1935
risulta proprietario di Calcata, divenuto Potestà con il diritto giuridico di esercitare il potere allora impartito dal duce Benito Mussolini, fa iscrivere Calcata fra i comuni beneficiari di una legge speciale per la Basilicata e la Calabria che prevedeva il consolidamento delle frane e il trasferimento degli abitanti in un altro luogo, a spese dello Stato.
Anche Calcata quindi rientrerà, con l’intercessione del Ferrauti, nel Regio Decreto del 1935, ma nessuno si preoccupò di ottemperare fino in fondo ai dettami di questa legge, salvandola così dall’abbandono e dalla demolizione, tanto che nel 1939 con la legge n° 1089 entra tra i luoghi d’interesse artistico e storico del Lazio.
Per il borgo medioevale di Calcata, inizia una nuova vita che diventa un luogo d’incontro tra persone interessate alla cultura, che apprezzano ciò che è la Storia. Si trasferiscono qui l’architetto Paolo Portoghesi, il coreografo americano Paul Steffen, la pittrice Simona Weller, l’attrice Marina Biondi tra Roma e Calcata, lo scultore Costantino Morosin, che insieme a Anne Demijttenaere, realizza il “Museo Opera Bosco”, aperto al pubblico fin dal 1996 e del quale l’amministrazione comunale ne va fiera.
Dormiente nel bosco
Si tratta di un prestigioso itinerario che percorre quasi due ettari di bosco, ove tra la vegetazione vi sono circa quaranta opere, eseguite interamente con materiali naturali, che riproducono i più svariati soggetti.
In attesa delle fate
Un perfetto connubio tra arte e natura, realizzato per comunicare l’importanza della tutela e della valorizzazione del territorio, che gli ideatori del museo infondono anche attraverso seminari educativi e varie attività multidisciplinari.
Arco trionfale della Natura
Calcata è stata scelta come location da tantissimi registi, Pier Paolo Pasolini per “Decameron”, Mario Monicelli per “Amici Miei”, Luigi Comencini per “Le avventure di Pinocchio”, Andrej Tarkovskij per “Nostalghia”, Abel Ferrara per “Mary”, Sergio Corbucci per “La mazzetta”, Luca Barbareschi per “Arena”, Ridley Scott per “All the money in the world”.
Nel 1980 il cantautore Fabrizio De André ha girato a Calcata il video della canzone dedicata a Pasolini, “Una storia sbagliata”.
Calcata viene citata nell’Ulisse di James Joyce e nel romanzo “Il Vangelo secondo Gesù Cristo” di José Saramago; ed ancora in “Un delitto a regola d’arte” di Donald Bain ed stata nominata in “Passeggiate Romane” di Stendhal e nel libro “Le chiavi di San Pietro” di Roger Peyrefitte, diplomatico, scrittore e attivista francese. Il borgo di Calcata continua a vivere e stimola il fermento culturale e
artistico grazie ad artisti che ne hanno fatto la loro residenza e aperto
botteghe, studi e centri culturali, promuovendo iniziative ed eventi. Tutto questo a partire dagli anni Novanta del Novecento. Il borgo di Calcata è stato promosso a centro artistico e culturale. Si accede al borgo sottopassando la doppia porta medioevale dal suggestivo gioco di luci ed ombre. Il varco porta indietro nel tempo, è come se si superasse uno stargate.
Palazzo Baronale di Calcata
La piazza, oltre al Palazzo Baronale, introduce ad un tessuto urbano, solcato da vicoli strettissimi conducenti ognuno a romantiche balconate sul Treja. Qui a Calcata, c’è un’altra piazzetta, intitolata a San Giovanni il battista, dove è una chiesa sconsacrata, convertita a Museo della Cultura Contadina.
Museo della Cultura Contadina
A Mazzano Romano, da non perdere, la Trattoria “Il Tugurio” in via Sinibaldi 7, dove la gentilezza e l’affabilità accompagnano piatti tipici del posto ad ottimo prezzo. Fatevi consigliare dalle proposte del cuoco. A Calcata, da non perdere, la Trattoria “Opera” in via della Pietà 2, dove Guendalina Sestili offre piatti unici della tradizione contadina ad un ottimo prezzo.
Giuseppe Lorin