Oggi, all’età di 71 anni, si è spento presso l’Istituto dei Tumori, di Milano, il critico d’arte Philippe Daverio. A nostro avviso, forse, non è stato il più grande critico d’arte italiano, ma “il” critico d’arte, in quanto, ha saputo popolarizzare tale professione portandola alla portata di tutti. Prima di lui, infatti, la professione veniva preclusa, a chiunque non fosse laureato in storia dell’arte, e si badi bene, la preclusione non era normativa, ma convenzionale, ritenendo che solo i laureati in tale campo, potessero avere le competenze per parlare di arte, cosa del tutto assurda. Se, infatti, in materie prettamente tecniche, è giusto che a praticarle sia un tecnico del settore vedasi ingegneri, avvocati, medici, notai, eccetera, perchè la pratica di tali professioni da parte di un “amatore” può essere pericolosa per gli altri, e per la società, non altrettanto si può dire per la critica d’arte, la cui pratica non è tecnica ma sentimentale, avendo a che fare con bellezza, armonia ed estetica, valori soggettivi e non oggettivi quindi, che possono essere espressi da chiunque, anche non laureato sia tuttavia, in grado di coglierne l’essenza, e narrarla. E Philippe Daverio, pur non laureato, era, senza alcun dubbio, in grado di cogliere l’essenza di armonia, bellezza ed estetica, e soprattutto di narrarla, da vero Connoisseur, termine che meglio si attaglia alla forma mentis di Daverio, che non critico. Il Connoisseur, infatti, non narra l’arte, in modo politicamente corretto, e non si piega ai voleri del mercato anche a costo di risultare impopolare, perchè semplicemente, è un amante dell’arte, e non può svilirne il valore seguendo le logiche del mercante. Il critico vecchio stampo e ligio alla foma, invece, spesso e volentieri indulge nei giudizi, o accentua le critiche a seconda della convenienza del momento, salvo poi dover fare marcia indietro di fronte all’evidenza. Il fallimento più eclatante della metodologia del critico d’arte rispetto a quella del connoisseur, è stato, a nostro avviso rappresentato dalla vicenda delle tre false teste di Amedeo Modigliani, che 35 anni fa, vennero scolpite, e buttate nel Fosso Reale di Livorno, una per burla, da tre ragazzi, e due, all’insaputa degli autori dello scherzo, da un vero artista Angelo Froglia, che intendeva, appunto mettere in risalto le storture del sistema della critica d’arte, riuscendoci benissimo. Per l’intera estate del 1984, infatti tutti i principali critici d’arte dell’epoca, incluso Giulio Carlo Argan, sostennero che le tre teste ripescate nel Fosso Reale, erano autentiche sculture di Amedeo Modigliani, fino alla confessione separata, e dettagliata, dei veri autori di questa burla clamorosa mentre molti connoisseurs locali, e non solo, dubitavano fortemente della loro autenticità sin dal primo istante sulla base solo delle loro sensazioni. Chiaramente in tal caso, essendo in corso il centenario della nascita di Modigliani, fu il mercato, a chiedere in qualche modo un’operazione di marketing per spingere la grande mostra personale dedicata all’artista, che si stava svolgendo a Livorno, con scarso successo di pubblico. Ecco quindi che il ritrovamento delle tre teste nel Fosso Reale, inserite in fretta e furia nel catalogo dell’esposizione, ristampato appositamente, rappresentava una ghiotta vetrina per i critici e le loro teorie, salvo poi dover appunto fuggire davanti all’evidenza di una burla, per la quale Amedeo Modigliani, avrà certamente riso da lassù, in attesa di essere raggiunto da Philippe Daverio, per ridere insieme della prossima clamorosa gaffe dei critici d’arte. Adieu Philippe.