Un corsivo di Achille Bonito Oliva su Robinson, supplemento di “Repubblica” sta scatenando un dibattito sul mondo, ma soprattutto sullo stato dell’arte contemporanea in Italia.
I punti salienti della riflessione di Bonito Oliva, che hanno già scatenato reazioni da parte di alcune riviste d’arte sono i seguenti:
“Pensare l’artista come un demiurgo, produttore isolato d’immagini, vuol dire non riuscire a comprendere l’esistenza di una condizione filosofica dell’arte e dell’artista. Calata all’interno di un contesto molto articolato, suddiviso in lavori specializzati”.
“Senza un sistema composto da media, collezionisti, mercato, musei, pubblico le opere in sé non avrebbero valore”.
“Un plusvalore culturale travalica anche la qualità stessa dell’oggetto.”
“Un valore aggiunto, un plusvalore culturale che spesso travalica anche la qualità stessa dell’opera d’arte e la modifica in una sorta di superarte.”
Si tratta di affermazioni forti e categoriche, che possono essere lette anche come provocazione intellettuale, ma che non corrispondono del tutto alla realtà fattuale dell’arte contemporanea in Italia, rispecchiando piuttosto quello che succede in altri Paesi, molto più avanti del nostro, riguardo la contemporaneità artistica ed il suo mercato. In Italia, infatti, non esiste un vero mercato dell’arte contemporanea, essenzialmente per due motivi. Scarsa conoscenza della materia da parte dei collezionisti, che, forse per pregiudizi culturali ed estetici, sono fermi ancora al figurativismo del primo ‘900 e scarsa propensione degli artisti, ad investire sulla propria arte affidandosi a professionisti. Queste due cause dell’inesistenza di un mercato dell’arte contemporanea in Italia pur diverse sono tuttavia catalogabili, come le classiche due facce della stessa medaglia. Se già gli artisti, infatti dimostrano di non credere nelle proprie opere e per risparmiare, non le promuovono, come può evolversi la mentalità del collezionista? E’ ovvio, quindi che non vi possa essere un mercato, a differenza di quanto accade nel resto del mondo, dove gli artisti, sono consapevoli della necessità di essere affiancati da una vera e propria filiera professionale, che spazia dal critico al gallerista. Paradossalmente Bonito Oliva, ha ragione, perchè l’arte non può esistere senza un sistema complesso e completo che la valorizzi, ma non si tratta solo di una situazione legata all’oggi, ma che risale già all’antichità. A ben vedere, infatti, se non fosse esistita la Chiesa, intesa come sponsor primario, l’arte si sarebbe estinta nel medioevo e possiamo affermare con certezza, che anche prima essa è esistita solo grazie alle esigenze estetiche ed iconografiche, dei templi classici, che hanno permesso la realizzazione dei capolavori scultorei, oggi presenti nei musei. Ma altrettanto paradossalmente, Bonito Oliva sbaglia, proprio perchè, come detto, nel nostro Paese questo sistema complesso e completo non esiste per i motivi suddetti. La dimostrazione plastica di quanto stiamo dicendo, è data dalla scarsa presenza di artisti italiani tra i cosiddetti top attuali, già dagli inizi di questo nuovo millennio, quindi da oltre vent’anni. Questo fenomeno negativo, è esploso in quel periodo, anche per cause anagrafiche, con la scomparsa progressiva di una generazione imprenditoriale che realizzatasi col boom economico del secondo dopoguerra, ha iniziato, tra gli anni ’70 ed ’80 a collezionare arte contemporanea, forse più per curiosità ed investimento, che per vera competenza, ma in ogni caso alimentando un vero mercato, che oggi non esiste più. La responsabilità maggiore di questa situazione, tuttavia e qui sta il vero paradosso del corsivo dell’ultraottantenne Achille Bonito Oliva, è proprio di personaggi come lui che negli anni in cui si affermava quel collezionismo imprenditoriale, interessato all’arte contemporanea, predicavano la supremazia degli artisti rispetto al mercato, portandoli pian piano a pensare che, essendo i creatori del prodotto non devono e non possono essere sfruttati da critici e galleristi, che a loro modo di vedere dovrebbero lavorare gratis per preparare le loro mostre ed i relativi cataloghi, che già hanno un costo tipografico, aspettando una percentuale sulle vendite, possibilmente piccola, col risultato che le loro case, sono piene di opere invendute, che probabilmente i loro eredi butteranno nella spazzatura, oppure si vedono costretti a venderle a 50 Euro, agli americani di passaggio, in studi improvvisati, allestiti in luoghi turistici. Ma si può definire arte una cosa del genere? E crea un valore artistico? La risposta ad entrambe le domande è evidentemente no, ma questa che piaccia o meno, è la realtà italiana, decisamente triste, dell’arte contemporanea e fa quasi sorridere, che a metterla in evidenza sia proprio uno di coloro che l’hanno provocata e che continua ad agitare le acque in tal senso, perchè sinceramente, non siamo riusciti a capire se nel suo scritto per Robinson, egli volesse tessere una lode di un sistema complesso e completo, come detto, mancante, nella speranza magari di spingere verso una sua realizzazione, oppure se lo stesse demonizzando, come se esistesse davvero.
Luca Monti