Besprizornye, così venivano identificati i bambini randagi nella Russia sovietica tra il 1917 e il 1935, termine riconducibile agli storici “ragazzi di vita” descritti da Pier Paolo Pasolini nel suo omonimo romanzo. I bambini orfani, abbandonati, scampati alle catastrofi naturali e militari, o fuggiti dai brefotrofi sono una delle tante testimonianze degli orrori della storia del Novecento che non andrebbero dimenticate.
Questi bambini sono stati l’ispirazione anche per un articolo di Indro Montanelli sul Corriere della Sera dell’8 luglio 1941, dal titolo appunto di “I besprizorniki”. Termine non nuovo della cultura mondiale dove la problematica dell’abbandono di queste esistenze, sì che è stata dimenticata.
È la sensibilità di Luciano Mecacci, lo psicologo, che ha portato alla luce attuale questa infanzia randagia della Russia bolscevica.
Il libro-documento “Besprizornye. Bambini randagi nella Russia sovietica – 1917-1935” di Luciano Mecacci, edito dalla Adelphi per la collana “L’oceano delle storie”, è il saggio, finalista al Premio Napoli 2020, arrivato alla 66esima edizione.
Venerdì 13novembre alle ore 17,00 è stato presentato il saggio alla presenza dell’Autore, Luciano Mecacci che ha dialogato con Massimo Fusillo. L’introduzione dell’incontro è stata a cura di Domenico Ciruzzi, presidente della Fondazione Premio Napoli che ha la sede a piazza del Plebiscito, Palazzo Reale.
Domenico Ciruzzi, presidente della Fondazione Premio Napoli
Il prestigioso saggio del professor Mecacci è corredato da 35 fotografie a colori e in bianco e nero fuori testo che rappresentano un repertorio di immagini ormai storiche.
Besprizornye, così venivano chiamati nella Russia postrivoluzionaria gli innumerevoli bambini e ragazzini rimasti orfani in seguito alla guerra e alla conseguente guerra civile. Stalin nel 1935 amava dire che “Vivere è diventato più bello, compagni, vivere è diventato più allegro”, e questa infanzia abbandonata non era certo compatibile con la politica che tentava in tutti i modi di imporre il finto ottimismo staliniano. Eppure, la moglie di Lenin, Nadežda Konstantinovna Krupskaja, era una pedagogista e in un primo momento il problema viene affidato agli psicologi perché tentassero di porvi rimedio. Ben presto, però, ci si rese conto che le soluzioni proposte non riuscivano a contenere le critiche della popolazione per contrastarne il fenomeno.
Ci fu da parte del governo russo la militarizzazione della risposta che passò alla polizia. Per i ragazzi dai 12 anni in su si applicarono le stesse norme valide per gli adulti, ovvero la prigione e, nei casi più gravi, la pena di morte. Su questa onta calò la patina dell’ottimismo staliniano che si tradusse in censura. Per i bambini che scamparono a questa crudele decisione ci fu un periodo atroce. I discorsi trionfalistici del regime contrastavano con una realtà ben diversa, terribile e tragica. Migliaia di bambini si organizzavano in bande più o meno numerose che mettevano insieme figli di nemici del popolo, orfani, figli abbandonati dai genitori, scappati di casa. Questo corpo di sbandati non si integrò mai alla propaganda del regime sovietico, erano diventati tutti degli eroi contro il despota.
I bambini si ponevano domande di una profondità tragica assoluta: “Perché mia madre mi ha messo al mondo?”, ma nessuno sapeva rispondere. E d’altra parte non c’era nessuno che potesse risponder loro. Così i bambini si autoeducavano! Vennero strumentalizzati dall’Armata Rossa che li usò come unità di sfondamento perché erano pronti a tutto, mentre è una leggenda che venissero lasciati in pace dalle forze dell’ordine perché le loro vittime erano borghesi. In realtà la polizia ne aveva paura o scendeva a patti con loro, intrattenendo loschi affari. È un libro del ricordo, “per non dimenticare”, ciò che lo stalinismo è stato capace di attuare. È il saggio ideale per la coscienza universale.
“… Dei bambini, che avevano una grande pratica della vita e la cui esistenza trascorreva per metà nei sotterranei, giocavano a palla. Un ragazzino sui dodici anni, soprannominato Leprotto, estrasse da una tasca laterale dei suoi abiti stracciati una bottiglia vuota che prima, evidentemente, era piena di samogon, e ognuno se la portò alle labbra schioccandole. …”.
BookCity Milano accolse, presso la sede della Fondazione Feltrinelli, la prima presentazione del libro di Luciano Mecacci, già professore ordinario di psicologia generale presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi di Firenze, incontro moderato da Gian Piero Piretto, già professore di cultura russa presso l’Università degli Studi di Milano.
Luciano Mecacci e Gian Piero Piretto alla presentazione
Giuseppe Lorin