“Nacqui clown e provo a fare di tutto per rimanerci” è l’autoritratto che offre di sé stesso Rodolfo Matto, uomo e artista dalle mille sfaccettature che ho incontrato a Catania, a margine di un incontro dell’associazione di clownterapia Teniamoci per Mano Onlus, del quale è da anni formatore in giro per l’Italia. A Matto, il cui nome clown, Paninou, richiama Pan che tra gli dèi dell’Olimpo era quello inviato da Zeus a fare scherzi alle altre divinità è infatti affidato il compito di introdurre al fantastico mondo della clownterapia i volontari che decidono di portare gioia e sorrisi a chi ne ha bisogno. Un compito delicato e sfidante ma al tempo stesso ricco di fascino che Rodolfo Matto svolge, forte di un’esperienza più che trentennale nel mondo del teatro e del sociale partendo da una città come Napoli in cui il palcoscenico e la comicità sono una vera e propria religione.
Qual è stato il tuo percorso di formazione? Come hai cominciato?
Ho iniziato nel settembre del 1980 a Bologna con un corso sulla figura del clown tenuto da quella che a mio parere è stata la più grande clown italiana, Alessandra Galante Garrone, allieva prediletta di Jacques Lecoq, uno dei più significativi pensatori del teatro contemporaneo. Il terremoto del 1980, in seguito al quale la mia casa è stata sgomberata e che mi ha visto partecipare ai soccorsi in Irpinia, ha rappresentato uno spartiacque. Avevo bisogno di recuperare la leggerezza ed una dimensione diversa nella vita e gli insegnamenti appresi a Bologna mi sono serviti molto. Ho iniziato quindi a fare teatro e ad un certo punto ho incontrato il mondo del sociale e lì ho potuto applicare, nel segno dell’inclusione, gli strumenti relativi alla comunicazione e alla leggerezza. Riabilitazione psichiatrica, minori, carcere sono stati i primi ambiti nei quali ho operato mantenendo sempre il rapporto con il teatro e forte anche di una formazione in ambito psicologico.
Il tuo obiettivo è quello di aiutare a raggiungere il benessere attraverso la leggerezza. Cosa significa?
La clownterapia, lo yoga della risata sono alcuni degli ambiti nei quali opero concretamente per raggiungere questo obiettivo al quale è dedicato il mio progetto “La sostenibile leggerezza dell’essere”, iniziato insieme ad una psicoterapeuta. Ho formato dei gruppi che si incontrano a cadenza quindicinale e si lavora insieme sul recupero della leggerezza e sulla ridefinizione di ciò che nella vita ciascuno si porta dietro di pesante e ovviamente si definiscono strumenti per guardare le cose in maniera diversa. Oggi vengo definito un “gelotologo”, mi interesso del benessere attraverso il ridere e aiuto le persone a ritrovare la propria umanità attraverso la risata.
Qual è stata l’esperienza che in questi anni ritieni più significativa rispetto a quello che sei oggi?
Sono state tante ma ricordo sicuramente i 12 anni trascorsi nell’ambito della salute mentale che sono stati una grande palestra di vita. Ho lavorato infatti con il primo gruppo di pazienti dimessi dal “Leonardo Bianchi”, l’ospedale psichiatrico di Napoli dopo la chiusura. Altra grandissima esperienza è stata quella all’interno del carcere cominciando dal carcere minorile a quello per adulti e soprattutto l’ospedale psichiatrico giudiziario, una struttura che potrei definire medievale e che per fortuna è stata chiusa.
Come è arrivato l’incontro con la clownterapia per la quale oggi sei impegnato nell’associazione Teniamoci per Mano ONLUS?
E’ stato un incontro quasi naturale. Cominciò tutto verso la fine degli anni ’80 quando tenni un corso post-diploma organizzato dall’Università Suor Orsola Benincasa e da un liceo psico-pedagogico per formare degli animatori destinati all’Ospedale Santobono di Napoli. In quella esperienza, orientata soprattutto all’animazione, portai il mio essere clown e proprio durante quel percorso uscì il film “Patch Adams” che ha rafforzato la mia convinzione nel continuare sulla strada intrapresa, basato sullo studio della risata e sulla sua applicazione anche terapeutica.
Chi consideri i tuoi maestri nell’ambito della clownterapia?
Fondamentale è stato lo studio del lavoro fatto dal clown Leonardo Spina e dalla psicoterapeuta Sonia Fioravanti che hanno ispirato il mio percorso sulla leggerezza e sulla terapia del ridere che continua ancora oggi. Altro incontro fondamentale è stato quello con lo yoga della risata, inventato dal maestro indiano Madan Kataria, che ha rappresentato l’ideale prosecuzione del percorso iniziato analizzando il metodo di Fioravanti e Spina.
Negli anni hai formato centinaia di persone portandole sul percorso della clownterapia. Cosa noti nell’approccio a questa esperienza? Quali difficoltà incontri?
Opero come formatore nell’ambito della clownterapia da circa 17 anni e mi pongo come obiettivo quello di sostenere la persona nel far emergere la propria dimensione clown. Nella stragrande maggioranza dei casi chi si approccia al corso ha un’idea della clownterapia ferma alla parola clown dimenticandosi della dimensione terapeutica. Non saremo mai terapeuti ma è terapeutico ciò che facciamo in quanto si lavora sul cambiamento di stato e di equilibrio della persona. Cerco di sottolineare sempre che potremo raggiungere l’obiettivo se nella relazione con l’altro siamo effettivamente presenti al di là di tutto. Uno degli elementi fondamentali è la sospensione del giudizio perché il clown vive nella dimensione del qui ed ora, vive di stupore. Quando mi chiedono della difficoltà di alcuni incontri in situazione difficili dico che la cosa che dobbiamo portare con noi a casa non è il sintomo che le persone hanno con sé ma la bellezza di un incontro della nostra parte più libera con quella dell’altra persona; una parte che in quel momento è oltre il sintomo che gli condiziona la vita.
Esiste una tecnica particolare nel fare clownterapia?
Io non parlo mai di tecnica come “modo per” ma parlo sempre di esserci. Io non insegno agli altri a mettersi in gioco ma li guido a giocare, come fanno i bambini, a recuperare quella libertà, quello sguardo aperto, quello stupore dell’incontro. È solo attraverso lo stupore che arriviamo alla bellezza perché lì c’è il “qui ed ora”, la sospensione del giudizio, la grande consapevolezza che in quel momento si sta vivendo.
Quali sono le 4 caratteristiche che fanno il clown di corsia?
Sicuramente la capacità di sospendere il giudizio, la capacità di vivere nel nulla, nel qui ed ora. Si potrebbe sintetizzare con il saluto dell’antico popolo Maya cioè “In-Lakesh” che vuol dire “vedo un altro me stesso nei tuoi occhi”. Questo può succedere se c’è grande consapevolezza di sé stessi, capacità di non negare le proprie emozioni, capacità di non usare il proprio pensiero, di non temere il fallimento. Il clown non pensa ma c’è, sente perché qualsiasi cosa che è frutto del nostro pensiero non è mai contemporaneo. Non si tratta semplicemente di empatia, cioè di sentire l’altro ma è di “sentirci” con l’altro. Nella clownterapia dobbiamo essere egoisti senza essere egocentrici, dobbiamo recuperare l’ego in funzione della nostra naturale propensione ad essere animali sociali.
Quindi come definiresti la clownterapia? Un viaggio interiore?
Più che un viaggio direi che è un recupero interiore che ti porta a relazionarti in un certo modo con l’altro. È il recupero dell’io che è nascosto dalle convinzioni, dalle parole.
In questo momento storico difficile, tra guerra e pandemia come si fa a mantenere la leggerezza?
Bisogna ripartire da sé provando a fare sempre la nostra parte. Quest’anno ho deciso di aumentare le energie profuse per diffondere la leggerezza e infatti con il progetto “Risate per un anno” utilizzo i miei canali social per proporre una risata, per condividere un “diario ridente” e per permettere agli altri di ricavarsi un piccolo momento per sorridere o ridere. Ridere è prerogativa umana e anche se la nostra cultura occidentale ci condiziona, la risata ha una funzione equilibratrice. Ridiamo di ciò che è innaturale per non soccombere all’innaturalezza delle cose. Siamo l’unica specie vivente che ride e con il tempo ridiamo di tutto ciò che ci accade quando l’abbiamo metabolizzato. Schopenhauer diceva che ridere è un “grande cicatrizzante dell’anima” ed è un qualcosa che ci riporta alla nostra vera umanità.
C’è un momento difficile vissuto di recente durante il quale hai applicato su di te la ricerca della leggerezza?
La positività al COVID che mi ha costretto, per fortuna senza sintomi gravi, a stare rinchiuso per 23 giorni mi ha spinto a concentrarmi sul qui ed ora, a vivere il momento e a mettere in pratica gli esercizi di yoga della risata e nei momenti più difficili mettevo il naso rosso. Questa esperienza è anche uscita dalla mia camera grazie a telefonate, videochiamate e la trasmissione del Tg2 Medicina 33 mi ha intervistato su come ho affrontato il COVID attraverso la leggerezza. È stato possibile perché ho riso e non mi sono pianto addosso.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Continuo a lavorare come formatore per la clownterapia in tutta Italia e parallelamente sto portando avanti un progetto di yoga della risata con gli anziani, in collaborazione con il Comune di Pomigliano d’Arco, per recuperare la loro parte sociale. Sono ritornato a teatro con uno spettacolo nel quale faccio vivere il mio clown e in cui celebro i miei 42 anni di “naso rosso”. Volevo raccontare questi ultimi 15 anni di scoperta della dimensione clown come dimensione umana e come molla per una vita equilibrata. Di fatto i clown hanno sempre cambiato l’equilibrio degli altri che stavano vivendo qualcosa che equilibrato non era.
C’è un filo rosso che unisce le due esperienze del carcere e dei pazienti con problemi psichici, le più importanti che mi hai citato?
Il trovare anche in situazioni di estremo degrado l’aspetto umano e condividere le loro emozioni che erano al di là delle rispettive storie e sofferenze. Ritrovare delle persone che erano al di là del concetto di giusto e sbagliato. Nella salute mentale ho scoperto che la sofferenza in quel caso è soprattutto figlia di un’estrema sensibilità e quindi del vivere una vita e un mondo senza protezioni. Mi ha ricordato un bellissimo film di Kim Rossi Stuart dal titolo “Senza Pelle” perché quelle persone in ogni caso non avevano nulla che li proteggesse dalle difficoltà del mondo.
Qual è il messaggio per il nuovo anno che ti senti di lanciare alla società dal tuo punto di vista di clown?
Recuperare la leggerezza e divertirsi nel senso etimologico di “divertere”, cioè di volgere lo sguardo dalle cose della nostra vita perché spesso siamo portati ad utilizzare un metro che ha dei centimetri falsati per cui le cose assumono un peso tale che finiscono per negarci dei pezzi di vita.