Il lavoro dell’assistente sociale in aiuto alla persona anziana fragile: i principi e i valori della professione alla base del lavoro con l’anziano
Il lavoro sociale, inteso come nuova professione senza più “la camicia di forza”, è pronto e desideroso di affrontare nuovi bisogni che emergono nella società. La popolazione anziana, naturalmente non costituisce di per sé, un problema, anzi l’attuale momento storico può essere considerato eccezionale e per la prima volta le persone che hanno fatto la storia del secolo sono vive ed in grado di raccontarcela. Oggi la maggior parte dei bambini e dei giovani hanno la possibilità di entrare in contatto con persone anziane e può apprezzare il raro cameratismo esistente tra i vecchi ed i giovani; la maggior parte degli adulti è in grado di conoscere le vicende delle loro famiglie durante le guerre mondiali o la Grande Depressione. Possiamo chiedere direttamente alla gente, per esempio, che cosa ha provato nell’ascoltare per la prima volta la radio o che cosa si ricorda del suo servizio militare, anche se è difficile indurre qualcuno a parlare delle trincee (specie coloro che sono sopravvissuti, sono decisi, generalmente a dimenticare quei terribili anni).
Ciò nondimeno esistono ugualmente delle possibilità senza precedenti di venire a conoscenza del passato. Il problema dell’invecchiamento della popolazione non dovrebbe essere considerato tale, pertanto, la maggior parte delle persone e non lo deve essere nemmeno per gli operatori sociali. A questi ultimi, può invece fornire l’occasione di lavorare con un gruppo di adulti eccezionalmente interessate: quelli che si sono adattati ad un enorme cambiamento, che hanno fatto i conti con il totale svolgimento delle loro esistenze.
Queste persone possono aver bisogno unicamente di un piccolo aiuto per continuare un’esistenza, che per la maggior parte di loro, è serena e che sperano continui ad esserlo. Penso che uno dei principi concreti sui quali andrebbero fondati i servizi sociali per le persone anziane può essere riassunto nel detto “a piccoli passi di fa molta strada”. Questo principio è una di quelle regole d’esperienza che può essere applicata ad ogni tipo di servizio, non solo di lavoro sociale. Evidentemente ogni piccolo passo di aiuto deve essere il giusto passo di aiuto. Non è il caso di provvedere con una particolare riunione d’equipe quando il problema è la malinconia o la sordità.
Oltre alla possibilità di “incontro” con tutte le classi ed i tipi di persone, gli operatori sociali che lavoravano con gli anziani hanno la possibilità di cimentarsi con uno straordinario assortimento di modalità di aiuto. Il lavoro sociale può essere così un processo veramente creativo. Un’altra regola, tratta dalla mia esperienza, potrebbe essere la seguente: “il lavoro sociale con le persone anziane non può essere compiuto in maniera isolata”. È completamente impossibile con gli anziani. Gli anziani sono gli stessi indipendentemente dal fatto che li incontriamo negli ospedali, a casa loro o in strutture residenziali. I loro bisogni differiscono solo in misura limitata in queste diverse situazioni e la mia sensazione è che gli operatori sociali siano sempre fin troppo desiderosi di settorializzare.
Credo che ci sia una chiara discriminazione a sfavore degli anziani, sia sul piano pubblico che su quello privato. Io personalmente ritengo che ogni persona anziana abbia dato un qualche contributo e che le persone anziane nel loro complesso siano una risorsa per la società.
L’impegno del lavoro sociale per l’auto-determinazione, considerato un principio irrinunciabile, dovrebbe farci rispettare il diritto di scelta libera per delle persone che, di solito, hanno così poche opportunità di poterlo fare. Un competente lavoro sociale professionale è necessario alle persone anziane, come è necessario il massimo impegno per assicurare che tale diritto sia effettivamente garantito.
Prima di entrare nel merito del discorso sulla relazione di aiuto tra l’assistente sociale e la persona anziana fragile e con la famiglia di quest’ultima, penso sia opportuno fare qualche accenno alla professione dell’assistente sociale, ai principi ed ai valori ispiratori, agli atteggiamenti professionali ed ai metodi e tecniche più usati. Cercherò, pur restando in un quadro piuttosto generale, di fare qualche riferimento al contesto particolare da me studiato, soprattutto per quanto riguarda l’ambiente di lavoro dell’operatore, sia fisico che relazionale.
Bisogna innanzitutto definire cosa si intende per valore e per principio. Il valore è l’ideologia di fonda che caratterizza una determinata disciplina; l’orientamento operativo che scaturisce da un determinato insieme di valori si definisce principio. Solitamente “i valori” pongono le loro radici negli ideali profondi che caratterizzano la vita di una comunità ed in seguito si sviluppano in relazione ai diversi momenti storici ed ai cambiamenti culturali.
Questo in parte può essere ritenuto valido anche per quanto riguarda la professione dell’assistente sociale, anche se in essa sono individuabili alcuni principi ispiratori che devono essere comuni a tutti gli operatori del settore.
Tali principi sono sintetizzati e sono sette:
- Il rispetto della dignità personale di ogni essere umano;
- La libertà personale;
- L’eguaglianza e la solidarietà;
- La partecipazione;
- L’autonomia sociale delle comunità e l’integrazione dei servizi.
Tutti questi valori rientrano perfettamente nell’argomento specifico dell’assistenza all’anziano fragile. Il rispetto della dignità personale dell’individuo anziano è il principio guida fondamentale, senza il quale qualsiasi intervento sarebbe perso in partenza. La capacità di concepire l’uomo-anziano come persona, e come tale dotata di una sua individualità ed unicità è il primo passo per riuscire a considerare i suoi diritti inviolabili. Tra questi c’è sicuramente la libertà (sia di prendere le decisioni che lo riguardano in prima persona, sia di realizzare i suoi desideri; in questo processo di decisione l’assistente sociale, con il suo intervento, aiuta la persona ad individuare i bisogni principali e le risorse utili a soddisfarli, facilitandone la fruizione). Mi sembra quasi superfluo, trattando di una professione di aiuto, citare il principio dell’eguaglianza: esso dovrebbe essere ormai chiaro, in una società multi-etnica come quella nella quale viviamo è necessario non avere pregiudizi verso persone diverse, sotto ogni aspetto, da noi. L’operatore che accompagna la persona anziana e la sua famiglia deve essere preparato. L’assistente sociale deve essere portatore e diffusore di una cultura solidale verso la persona anziana e la sua famiglia, rompendo per primo la barriera dell’isolamento e favorendo la partecipazione dei vari soggetti al processo di aiuto. Tali soggetti possono essere sia parenti ed amici stretti, già legati al malato da sentimenti di affetto, sia persone diverse, impegnate nel mondo dell’associazionismo e del volontariato.
Questo lavoro di coordinamento di risorse, esistenti o create ad hoc, forma attorno al nucleo familiare dell’anziano una rete di aiuto e sostegno importantissima. Questo discorso si collega con gli ultimi due principi della professione dell’assistente sociale: quello riguardante l’autonomia delle comunità, in questo caso è la famiglia che deve essere mobilitata attorno al soggetto svantaggiato ed incoraggiata ad auto-aiutarsi, e quello dell’integrazione dei servizi, che ci porta di nuovo al discorso del coordinamento armonico delle risorse esistenti sul/nel territorio.
Tale coordinamento è ancora più necessaria in questo ambito, dove si tende a delegare il caso al settore pubblico, che a sua volta lo “sanitarizza”. L’integrazione in questo frangente deve avvenire tra pubblico e privato e tra ambito sanitario e sociale, privilegiando principalmente il lavoro delle équipe multidisciplinari. Quanto agli atteggiamenti professionali sono l’insieme dei “comportamenti ideali” che l’assistente sociale dovrebbe assumere nella relazione con l’utente. Non mi soffermerò molto a parlare di questi atteggiamenti, in quanto essi sono tutti ricollegabili ai principi trattati in precedenza. Ricorderò solo brevemente un atteggiamento di accettazione è condizione indispensabile per l’instaurarsi di un rapporto di fiducia e rispetto tra le due parti; la persona che non si sente accettata non sarà neanche disponibile alla comunicazione con l’operatore, precludendo in questa maniera ogni possibilità di intervento. Un utente che, al contrario, si sente valorizzato per le cose che fa, al quale viene fatto capire concretamente di non essere considerato un numero ma un individuo (particolarizzazione), che viene spinto a migliorarsi ed a cercare lui stesso le soluzioni più adatte per la situazione del problema (autodeterminazione), sentirà l’assistente sociale non come un pericolo o come una persona sulla quale scaricare le proprie angosce, ma come un sostegno al quale appoggiarsi senza però perdere il controllo della situazione.
Un altro atteggiamento imprescindibile nella relazione di aiuto alla famiglia dell’anziano fragile è la confidenzialità: tale atteggiamento non vuole trasformare un rapporto professionale in una relazione tra amici, ma sta ad indicare che, per poter capire a fondo alcune problematiche particolarmente delicate, bisogna mettersi sul piano delle persone che realmente le vivono, rapportandosi in maniera empatica e partecipativa. Un ultimo accenno va fatto in tema di globalità: questo atteggiamento si ricollega al principio dell’integrazione dei servizi ed ai suoi correlati. È importante che l’approccio al malato di demenza o all’anziano fragile ed alla sua famiglia sia globale. Non bisogna concentrarsi né solo sulla salute fisica, né solo sull’aspetto relazionale, ma integrare questi due settori in maniera coordinata ed efficace.
In cosa può consistere il lavoro dell’assistente sociale con le persone anziane fragili e le loro famiglie? Mariaclara Leoni (Leoni Mariaclara, L’assistenza psicosociale nella malattia inguaribile, La Cittadella Editrice, Assisi, 1992, pag. 278) individua due attività tipiche di questo operatore che si adattano bene alla situazione da me presa in considerazione: esse sono il casework e la collaborazione e consulenza all’équipe assistenziale. Il casework è quel servizio diretto a pazienti e famiglie per alleviare o eliminare le cause psicosociali di sofferenza. Non si può agire sul solo malato, ma bisogna prendere in carico tutta la famiglia, quando questa non esiste o non è disponibile a prendersi cura del congiunto, l’assistente sociale dovrebbe essere in grado di mobilitare le risorse esistenti per creare attorno alla persona svantaggiata una rete di aiuto efficiente. Il casework o lavoro sul caso, si distingue in due tipi di aiuto: un aiuto materiale ed un aiuto emotivo.
Inizialmente quando una famiglia si rivolge all’assistente sociale, la richiesta è essenzialmente pratica: un sussidio economico, un cambio alloggio nelle case popolari, una richiesta di borse spesa e di aiuto domestico. L’assistente sociale potrà ricevere anche richieste di consulenza per lo svolgimento di pratiche burocratiche come l’invalidità civile o la dichiarazione di handicap. Con l’andare del tempo e del rafforzarsi del rapporto di fiducia tra l’assistente sociale e la famiglia, può capitare che i membri di essa sentano il bisogno di parlare con l’operatore anche di sentimenti ed emozioni più intime, che riguardano la sfera dei rapporti all’interno del nucleo familiare. È così che l’assistente sociale si trova ad essere il depositario di dubbi e sfoghi; può succedere, infatti che i familiari della persona anziana fragile trovi nell’operatore una persona con cui parlare e poter esprimere le proprie preoccupazioni, oppure che il malato stesso trovi in esso una persona capace di ascoltare e capire anche le richieste e le emozioni più disperate. Spesso inoltre, quando una persona si ammala, il suo ruolo all’interno della famiglia cambia, e di conseguenza anche gli altri membri si trovano in una situazione di instabilità relazionale: compito dell’assistente sociale è quello di aiutare la famiglia a ricostruire un equilibrio al suo interno, in modo da poter affrontare più serenamente la difficile situazione.
In questo lavoro di supporto emotivo l’assistente sociale deve essere ben consapevole delle sue capacità e competenze, in modo tale da non rischiare di invadere il campo d’azione dello psicologo; non tutte le situazioni sono risolvibili con gli strumenti tipici del servizio sociale, e di questo un operatore responsabile deve tenerne conto.
Un’altra attività importante dell’assistente sociale è quella della consulenza e coordinamento dell’équipe multidisciplinare (Leoni Mariaclara, op.cit., pag. 287): è questo un compito fondamentale, perché se il gruppo di assistenza non è organizzato e coerente al suo interno, tutto l’intervento ne risente. L’assistente sociale può coordinare le riunioni di équipe, organizzare i turni di infermiere e volontari a domicilio del paziente, mettere a punto un modello di intervento che sia uguale per tutti, aiutare gli operatori nella comunicazione interpersonale.
Secondo il mio punto di vista, esiste una terza attività, tipica della professione dell’assistente sociale, che bisogna tenere in considerazione: il lavoro di rete. Coordinando l’équipe assistenziale, diventa compito dell’operatore anche il mettere in relazione quest’ultima con eventuali altri servizi coinvolti, in modo da integrare l’intervento, dividersi i compiti ed evitare di fare cose superflue o, al contrario, di non mettere in atto interventi essenziali. Per fare questo l’assistente sociale deve possedere una vasta conoscenza delle risorse esistenti sul territorio, sapere come operano e con quali modalità. In questo modo il suo intervento sarà enormemente semplificano nel caso, ad esempio, di un utente seguito da più servizi, o nel caso di un altro che invece non possiede le risorse minime per riuscire a mettere in atto un sostegno.
A volte gli operatori sociali possono offrire un valido sostegno a coloro che assistono valorizzando questo loro ruolo spesso criticato perché visto come surrogato di un vero servizio o di un aiuto più formale. L’assistenza a chi assiste consiste nel sostenere la loro azione. La maggior parte delle persone desidera assistere i propri parenti ma dopo un po’ si esaurisce e non ce la fa più. Un principio importante è che l’aiuto è efficace se la gente lo desidera, e non se è conveniente per l’ospedale o per il servizio sociale distrettuale. Una volta che i parenti sono sicuri di poter ottenere aiuto qualora lo desiderino, spesso succede che non lo chiedano affatto. Essi possono anche mettere alla prova l’assistente sociale. Avere certezza sembra essere la chiave di tutto: quando chi aiuta è certo che un qualche soccorso sarebbe disponibile nel momento in cui ciò si rendesse necessario, di norma questo fa si che egli non cerchi tale aiuto ma continui a darsi da fare autonomamente. Noi operatori sociali dobbiamo essere capaci di comunicare i sentimenti: i nostri o quelli dei nostri utenti. Con questo gruppo di utenza particolarmente vulnerabile, i sentimenti sono probabilmente la cosa più importante che deve essere partecipata. Per un operatore sociale uno dei requisiti essenziali della comunicazione è quello di partire dal punto in cui si trova l’utente. Ciò che interessa è come il nostro utente percepisca la realtà. Un secondo principio è che noi non dovremmo giudicare i nostri utenti; essi sono tuttavia molto importanti soprattutto nel lavoro con i vecchi, una categoria di persone che ha stili di vita ed esperienze così diversi da quelli degli operatori sociali e delle altre categorie di utenti. Bisogna capire ed ascoltare l’anziano: gli operatori sociali possono ascoltare gli anziani. È veramente stimolante ascoltare le anziane signore che narrano con fierezza di non aver mai richiesto assistenza malgrado la loro vita sia stata costellata di terribili privazioni. Gli anziani spesso sono fieri della loro frugalità e delle rinunce sopportate in circostanze che la gente d’oggi difficilmente sarebbe in grado di tollerare. Solo se i nostri sforzi di comunicare sono basati su una qualche comprensione delle teorie di vita dei vecchi noi operatori riusciremo a capire la loro reticenza e la loro ritrosia a domandare aiuto; se non è così, rischiamo di compiere ulteriori errori. Qui voglio sottolineare solo che questa generazione affonda i suoi valori ed i suoi atteggiamenti in epoche molto diverse dalla nostra. Gli operatori sociali possono, inconsapevolmente calpestare ogni loro sentimento più caro se procedono senza attenzione e prudenza. È perfettamente possibile guardare il mondo attraverso i loro occhi, ma occorre essere disponibili a farselo raccontare da loro. In conclusione, gli operatori sociali non sempre riescono a rendersi conto che parlare con il comportamento costituisca una competenza estremamente importante, anche se quanto detto sopra, secondo la mia esperienza, può essere applicato a tante persone anziane che sono in situazione di fragilità. Esse hanno bisogno della sicurezza emanata dal calore di una mano per potersi rilassare e partecipare. Molti, molti anziani necessitano di essere solo toccati.
Il Lavoro Sociale “Dietro Le Quinte ” con gli Anziani
Chi lavora professionalmente con le persone molto anziane, così come chi si presta giorno dopo giorno a dare la loro necessaria assistenza, può accumulare una considerevole tensione. Le ragioni di ciò sono ovvie. Mentre la maggior parte degli anziani sono degli adulti normali con i quali si possono intrattenere delle normalissime relazioni, i vecchi con i quali gli operatori sociali hanno a che fare sono quelli che, con molta probabilità, a causa di malattie fisiche o mentali, o persone con problemi, oltre ad essere estesi sono anche caratterizzati da una notevole complessità.
Spesso gli anziani con i quali entriamo in contatto hanno delle indisposizioni fisiche, con qualche probabilità anche alcuni disturbi psichici e possono pure essere privi di parenti. Questa gravità e complessità dei problemi produce già in sé abbastanza difficoltà, ma la maggior causa di tensione sta nella nostra limitata capacità di poterli aiutare. La sola soluzione valida può sembrare quella di ricoverarli in qualche centro residenziale ma questo può non essere auspicabile. Un’ulteriore causa di stress per chi lavora con gli anziani è in effetti l’inevitabilità della morte. Molti anziani moriranno mentre noi lavoriamo con loro; molti di loro sono realmente moribondi e la maggior parte di loro morirà entro pochi anni. Sostenere la necessità di un approccio ottimistico nel lavoro sociale con gli anziani può essere, quindi veramente difficile benché varie ricerche abbiano messo in luce che la maggior parte degli anziani sono effettivamente ottimisti riguardo al loro futuro, per quanto limitato questo possa essere. Per lavorare con gli anziani, bastano certamente delle persone e degli assistenti sociali del tutto normali e che di solito queste persone si trovano bene nel loro lavoro; può esserci tuttavia realmente bisogno che l’assistente sociale sappia pensare anche a se stessa per non finire completamente in burn-out e/o diventare completamente insensibile. Gli assistenti sociali, non sono ancora sufficientemente in grado di prendere atto che loro stessi possano aver bisogno di sostegno e di incoraggiamento (sono tuttavia avanti anni luce rispetto a certe categorie professionali, i quali se ne stanno ben aggrappati al mito dell’obiettività professionale). Utilizzare le abilità professionali di aiuto per sorreggersi l’un l’altro, tra colleghi operatori sociali, dovrebbe essere una pratica molto più diffusa di quanto lo sia attualmente: la maggior parte degli assistenti sociali tende a lamentarsi che essi sono senz’altro in grado di occuparsi dei loro utenti ma che “i loro colleghi li facciano impazzire”.
Le possibili risposte a queste difficoltà sono ben note, ma non è facile trovare il tempo e le energie necessarie per metterle in pratica nell’agire professionale, analizzandole brevemente, troviamo:
- LA SUPERVISIONE: la supervisione consiste nel prendersi il tempo occorrente e nel legittimare il fatto di discutere su quello che si sta facendo. Dato il tipo di decisioni che devono essere prese ed il potenziale grado di influenza sugli operatori sociali, appare particolarmente importante che il tempo a disposizione sia adeguato. La supervisione è innanzitutto un regolare periodo di tempo di almeno un’ora, con frequenza minima di una volta ogni quindici giorni, in cui si pone l’attenzione sul lavoro di un operatore sociale;
- IL LAVORO IN EQUIPE: il termine équipe è utilizzato per descrivere sia un gruppo di persone che lavora assieme, sia un insieme di persone che si riuniscono periodicamente e parlano fra di loro. Équipe come assistenza è uno di quei termini del lavoro sociale che tendono facilmente a degenerare;
- I TEAM MULTI-PROFESSIONALI;
- I BISOGNI DELLE PERSONE CHE ASSISTONO: il sentimento che tutte le persone che assistono possono provare con maggiore intensività è la collera: per sporcizia, per ingratitudine, per le richieste irrazionali, così come per un’ennesima responsabilità a loro addossata. Non è facile essere sereni e razionali quando si dipende totalmente o in parte dall’altro. Ambedue le parti possono aver bisogno d’aiuto nei loro sforzi di mantenere delle relazioni positive e fruttuose;
- L’AIUTO A CHI ASSISTE: cosa possono fare dunque gli assistenti sociali per prestare aiuto a queste persone? È fin troppo semplice lavarsene le mani specialmente in un periodo in cui chi assiste a drastici tagli delle spese per i servizi pubblici ed in cui quindi si finisce per dare per scontato di non riuscire a far fronte a tutti i bisogni della gente. Gli assistenti sociali potrebbero iniziare col trasmettere alle persone che li affiancano nel lavoro di assistenza, le cose che loro stessi hanno imparato. Come può l’assistente sociale fornire a chi aiuta queste essenziali opportunità di essere ascoltati? Potrebbe fornirle direttamente l’assistente sociale stesso, ma questo richiederebbe di avere sempre il tempo disponibile quando la gente ne ha bisogno. Parenti e vicini possono senz’altro essere contenti di parlare con loro se gli assistenti sociali dimostrano interesse e simpatia e possono essere sicuri di non venire sottoposti a giudizio. Ma gli assistenti sociali non sono ovviamente in grado di fronteggiare l’ampia domanda potenziale di sostegno emergente da una comunità e debbono essere quindi aiutati da altre persone. Ciò aiuta a comprendere ed a simpatizzare; ma che possono fare gli assistenti sociali per aiutare concretamente questi operatori? Può essere necessario un impegno di tutta l’équipe per convincerli che qualche cosa deve essere fatto. Ancora una volta l’alternativa possibile può essere quella di formare un gruppo di supporto di qualche tipo.
Il pregiudizio contro gli anziani è un atteggiamento diffuso nella società. Del persistere di questo atteggiamento gli operatori sociali sono sia colpevoli che vittime. Ne sono colpevoli perché hanno anche loro delle responsabilità per i servizi, spesso di basso livello, forniti dagli anziani; ne sono vittime perché gli operatori sociali che lavorano nell’ambito dell’assistenza agli anziani sono considerati operatori quasi di serie B ed hanno minori possibilità di carriera rispetto ad altri. Il primo compito dovrebbe essere quello di elevare il livello di consapevolezza di tutti gli operatori sociali anche sull’esistenza di questo atteggiamento dispregiativo. Senza questa presa di coscienza gli operatori sociali non saranno mai in grado di cambiare i loro atteggiamenti. Senza un diffuso cambiamento degli atteggiamenti, la posizione sociale degli anziani non potrà essere migliorata. Emerge qua, un’ulteriore curioso paradosso: noi tutti sperimenteremo l’anzianità e malgrado ciò fingiamo che tale condizione non ci riguarderà. La finzione è sottile. Lo stereotipo ha un effetto di deprezzamento: “vecchiaccia” lo stereotipo suggerisce un minor grado di competenza sia fisica che intellettuale. Queste eccezioni si considerano come delle conferme alla regola: lo stereotipo corrente della vecchiaia in questo modo si rafforza. Il processo di acquisizione di questi atteggiamenti negativi può iniziare sia nell’infanzia sia nell’età adulta. Gli assistenti sociali dovrebbero essere particolarmente attivi nel favorire un processo di presa di coscienza nella gente, in quanto occupano una posizione cruciale per poter considerare in pieno tutte le conseguenze dei pregiudizi e dello stereotipo. Sul piano pratico, e ad un livello più semplice, far comprendere e prendere coscienza significa essere pronti a contestare puntualmente qualcuno ogni volta che fa delle osservazioni in cui sia evidente il pregiudizio contro l’anziano. Così l’operatore potrà ad esempio, suggerire a chi dice di non ricordare un numero di telefono poiché sta diventando vecchio che egli forse non aveva altrettante cose da ricordare quando era più giovane; o se qualcuno si lamenta che gli dolgono le giunture e che ciò deve essere conseguenza dell’età, potrà suggerire che forse ciò dipende dal soprappeso e/o da uno scarso esercizio fisico.
Il lavoro sociale deve anche porsi, tra i vari altri suoi obiettivi, un cambiamento degli atteggiamenti nei confronti degli anziani; ciò significa che, ciascuno nel proprio piccolo, inclusi tutti gli operatori sociali devono combattere il pregiudizio contro l’anziano, dovunque esso si riveli. Questo è un compito difficile che richiede conoscenze, esperienza e la capacità di spiegare bene come stanno le cose, ma prima di combattere il pregiudizio contro esterno è necessario favorire una presa di coscienza personale, a questo proposito, nei colleghi operatori e negli anziani stessi.
Antonella Betti