Tutto ha dell’incredibile e ciò che è successo assume un dovere morale comunicativo, di allerta, per aiutare altri individui potenzialmente sani dal covid-19 che in qualche modo si riconoscono nella storia di Adriana e pazienti che si trovano o che si troveranno nelle mani degli “operatori sanitari”, gli angeli bianchi.
La storia di covid, la storia di Adriana, la storia di alcuni cittadini italiani. Adriana è affetta dalla sindrome da anticorpi antifosfolipidi, malattia immunitaria abbastanza rara, che fa sì che il suo sistema immunitario non solo la difenda ma talvolta agisca al contrario aggredendola. Adriana lo scopre otto anni fa, all’epoca aveva 39 anni. Questa malattia, unita ad altre insufficienze della donna, la porta ad essere cardiopatica, affetta da una aritmia ventricolare oltre ad asma bronchiale cronico, diplopia all’occhio sinistro nonché di una vescica neurologica alimentata da un pacemaker sacrale regolarmente rimosso e reinserito chirurgicamente. Adriana è anche intollerante a tantissimi alimenti, al glutine, è celiaca, al lattosio, alle uova e alla maggior parte delle verdure, specialmente al pomodoro.
È una persona molto esposta e rientra nelle categorie a rischio covid. Il 9 ottobre di questo anno 2020 Adriana va nel beneventano, va a far visita ai suoi genitori, ai suoi fratelli, ai suoi figli. Parte con il treno regionale da Latina alla stazione di Napoli centrale. Con lo stesso mezzo il 13 ottobre rientra a Latina nella loro casa dove vive con il suo uomo. È su quel treno che si infetta poiché tutte le persone che lei ha frequentato nel beneventano, nella sua famiglia, tutte stanno bene, sono sane e tutte al tampone risultano negative, tutte asintomatiche. Si deduce che Adriana abbia preso il covid-19 proprio su quel treno regionale, il treno del ritorno a casa. Adriana racconta che tra il 9 e il 13 ottobre, partita da una stazione del casertano per raggiungere la stazione di Napoli centrale, senza alcun controllo, senza alcun distanziamento. Il treno arriva alla stazione centrale di Napoli, e poiché in ritardo, sale di corsa su un secondo treno senza uscire dalla zona binari; ogni volta che vede qualcuno, pensa di esibire il biglietto.
Sui sedili accanto ci sono dei ragazzi senza mascherina ma lei è tranquilla perché ce l’ha e le copre naso e bocca. Arriva alla stazione di casa e trova la stessa situazione identica a quella della stazione di Napoli centrale. Tutto senza distanziamento, senza termo scanner, senza alcun controllo. È il 13 ottobre, è il giorno del suo rientro a Latina. Domenica 18 ottobre avverte i primi sintomi, inizia la febbre che arriverà a 39,06. Nel beneventano la sua famiglia sta bene, è solo lei che è in sofferenza. Aumenta il fastidio alle ossa e l’affaticamento respiratorio e contemporaneamente si palesa un lancinante mal di testa.
A fronte di ciò il 21 ottobre si mette in fila nel drive in della sua società per il tampone rapido che risulterà positivo e dopo 50’è il secondo tampone molecolare che confermerà la sua positività.
Torna a casa con il mal di testa, le tempie pulsano, la febbre, la tosse, l’affaticamento respiratorio. Arriva l’autombulanza che la porterà all’ospedale di Santa Maria Goretti di Latina.
Lei porterà con se solo una piccola trousse, una pochette, con dentro le sue tante ma essenziali medicine per la sua quotidiana esistenza, senza le quali non potrebbe vivere.
Intorno alle ore 22,00 arriva al pronto soccorso dell’ospedale e viene ricoverata nello stanzone covid-19 mentre il mal di testa si fa sempre più lancinante.
Il giorno dopo viene trasferita nel reparto OP, osservazione previntensiva, e lì ci rimane per altri due giorni agganciata alla maschera dell’ossigeno. Di questi giorni nel referto di dimissioni non c’è traccia né dei due giorni né dell’ossigeno erogato.
La fase di anamnesi prevede l’intervista del dottore del reparto.
Il medico le chiede a 15 metri di distanza, stando stravaccato sulla sua sedia della scrivania, le chiede la storia clinica, davanti agli altri ricoverati e le chiede di alzare la voce perché non la sente da quella distanza. Adriana chiede per pietà un rimedio per il suo mal di testa, la sente scoppiare.
La Tac aveva confermato la polmonite interstiziale. Dopo 5 ore di sofferenza e grazie ad un intervento esterno le è stata fatta una flebo per il mal di testa.
È certo che non in tutti i reparti covid, l’approccio con i pazienti è simile a questo che sto descrivendo. Quando si capita in mani sbagliate è un miracolo che ci si salvi. Ciò che è successo a Adriana riesce a far dubitare della credibilità del governo italiano e le sue istituzioni, ma anche degli enti ospedalieri divenuti lucrose aziende d’affari, dovrebbero come minimo essere controllati dalle autorità di controllo preposte. Adriana ha delle intolleranze alimentari. Sarebbe morta di fame, non per covid, se non fosse intervenuto il suo compagno a portarle da casa il giusto cibo. Lei, che è già così gracilina è rimasta per sei giorni senza mangiare, l’intolleranza alimentare specialmente l’intolleranza al lattosio, le aveva annullato l’appetito. La paura di essere considerati solo un numero di letto c’è, pertanto medici, infermieri e personale sanitario sono disorientati ed in continua apprensione, abbandonano al proprio destino i degenti. Eppure prima di intraprendere questa professione, i medici hanno fatto il giuramento ad Ippocrate, nessuno li costringe a svolgere questo lavoro. Questi eroi in camice bianco devono prestare il loro lavoro con umanità e molta pazienza, devono stare al servizio del paziente ed arrivare appena chiamati.
Adriana è stata abbandonata anche se chiamava, suonava, la luce rossa della chiamata rimasta accesa per più di un’ora, sia nel reparto sia nel corridoio, mentre gli infermieri continuavano a giocare a carte, si sentivano le loro voci; eppure il personale riscuote lo stipendio ed è protetto e retribuito per assistere i malati. Nel periodo di reparto: nessuna visita dei dottori, e non è un’esasperazione del concetto, nessun controllo ravvicinato, nessun controllo visivo, farfalline della flebo lasciate attaccate al braccio per più di 12 ore con una semiemorragia dilagante sulla garza che non riesce a bloccare e che ricorda un film dell’orrore di un paese incivile o di panni da mattatoio imbrattati.
Un infermiere con la macchina della pressione, aggancia al braccio di Adriana, il rullo per il controllo della pressione e lascia sul letto poggiato il display, e dice: “Torno subito”.
Il display si spegne. Restano la tosse, la congiuntivite mentre dall’occhio fuoriescono le lacrime, ed inizia anche la dissenteria.
Adriana è intollerante al lattosio ed i tre principali medicinali che le vengono somministrati sono: eparina, antibiotico e cortisone. Nel cortisone, il Medrol, c’è il lattosio al quale Adriana è altamente intollerante e va preso con il gastroprotettore.
Si deve far ricorso ad un intervento esterno, lo stesso che le fece somministrare una fiala per il mal di testa. È sempre così, le amicizie influenti ed importanti esterne riescono a salvare la vita. E chi non ha amicizie?
Il 3 novembre Adriana viene trasferita in un nosocomio, in un hotel adibito a punto di degenza poiché è riuscita ad uscire dalla fase critica ma ha bisogno di ulteriori attenzioni e di osservazioni.
In ospedale ci sono due linee: la linea blu e la linea rossa, o sporca, come dicono i pazienti e gli infermieri, la linea dei pandemici appunto, che sarà percorsa dai malati di covid-19.
È in questa occasione che le viene consegnato il documento “falso” di dimissioni controfirmato dall’ASL e dal direttore sanitario dell’ospedale di Santa Maria Goretti di Latina.
Venne prelevata dall’ambulanza il 21 e non il 24 ottobre 2020, come scritto sul documento di dimissioni; il paziente si presentava in condizioni cliniche generali discrete ma ciò non è vero perché Adriana aveva il mal di testa lancinante; dispnea a riposo con tosse ma Adriana non riusciva a respirare e non riusciva a rispondere al medico durante l’intervista di anamnesi perché non riusciva a parlare per fame d’aria, per l’affaticamento polmonare; il paziente durante l’intera degenza il paziente si è mantenuto asintomatico ma la asintomaticità nella dispnea è un falso, è una menzogna; il paziente non ha mai necessitato di terapia di ossigenazione ma Adriana fin dai primi giorni del pronto soccorso era agganciata alla bombola di ossigeno senza la quale non avrebbe avuta la forza polmonare per respirare.
Adriana, letto numero 13, numero 17, numero 415.
Adriana, dopo 25 giorni viene dimessa con tosse stizzosa.
E pensare che una giovane ed impreparata dottoressa l’avrebbe dimessa molto tempo prima in quelle condizioni disperate mandandola incontro alla morte certa.
Il referto di dimissioni sarà privo di alcuni fondamentali passaggi. Siamo nello Stato d’Italia. Secondo voi è giusto quello che sta avvenendo all’oscuro delle autorità italiane preposte al controllo?
Adriana, la tua forza di sopravvivenza ha fatto si che ne saresti venuta fuori, ancora purtroppo con tosse, anche se mille difficoltà ti hanno minata nel corpo e nell’animo.
Giuseppe Lorin