Nomi come Tuchulcha, Uni, Rasna, Vanth, Prusna, Ram, Aita, Kersu, Vethina, Velia, Velcha, Afuna vennero agli onori di cronaca nel 1822 dopo la scoperta sulla collina di San Marco a Perugia, della stele in pietra del III secolo a.C. con l’iscrizione in lingua etrusca. Nomi comuni di un popolo che erano ricorrenti anche nel circondario di Vulci. Attraverso i ritrovamenti avvenuti nell’area, è stato possibile riscoprire la prima divinità da loro adorata, le tradizioni, i canti e le danze degli etruschi.
Anfora della danzatrice 500 a.C. – Vulci – Museo
La collezione dei marchesi Guglielmi di Vulci, comprende l’anfora etrusca a figure nere detta del pittore di Micali, ora nella sala IX dei Musei Vaticani, con l’immagine alata del demone del male Tuchulcha che rincorre il predestinato.
L’azzurro o il viola marcio o il nero del demone del male alato, doveva ricordare il colore cadaverico
Bryan Edgar Wallace, scrittore inglese di romanzi e racconti di crimini misteriosi, risvegliò l’interesse per il mondo dell’oltretomba degli etruschi, specialmente con una sua novella dalla quale venne dedotto il film “The Dead Are Alive”, dal titolo “L’Etrusco uccide ancora”, diretto nel 1972 da Armando Crispino, deceduto a Roma il 6 ottobre 2003.
La Raccolta Guglielmi, visibile nella sala IX dei Musei Vaticani, è composta da circa 800 oggetti che si datano tra il IX e il I sec. a.C., dall’età del Ferro, cultura Villanoviana, fino a tutto il periodo ellenistico. Oltre ai bronzi etruschi di Vulci e alle ceramiche locali di varia produzione e cronologia: impasto, bucchero, ceramica etrusco-corinzia, a figure nere, rosse e ocra, si registra una forte presenza di ceramica greca di importazione: protocorinzia, corinzia, calcidese, greco orientale, laconica, attica a figure nere e a figure rosse, per la quale Vulci costituiva uno dei principali mercati di destinazione. Il nucleo più cospicuo è rappresentato dalle ceramiche attiche, soprattutto a figure nere, secondo una statistica ricorrente in Etruria meridionale.
La stele di Perugia, al pari della stele di Rosetta, ha permesso con solo quarantasei righe scritte in etrusco, la comprensione di quanto l’epigrafe indicava, ed è rimasta intatta in entrambi i lati.
Stele di Perugia con descrizione di un atto giuridico
Secondo gli archeologi si tratta di un cippo confinario di sepolture tra le proprietà di due famiglie etrusche, che ha permesso la decodifica dell’alfabeto etrusco, illuminando il significato dell’espressione emotiva dell’antico popolo.
Il testo riporta di un accordo tra le famiglie dei Velthina e degli Afuna, relativo alle modalità d’uso comune di una proprietà contenente la tomba dei Velthina, protetta da Tuchulcha. È oggi conservato nel Museo Archeologico Nazionale Etrusco dell’Umbria, a Perugia. Non è arrivata fino a noi solo questa stele ma gli archeologi storiografi hanno avuto anche l’opportunità di analizzare e studiare il Disco di Magliano, le Lamine di Pyrgi, la Tabula Cortonensis, oltre alla Tegola di Capua, al Liber Linteus e a Tuscania, il dado da gioco in avorio, che ha permesso la conoscenza dei primi sei numerali in lingua etrusca, rinvenuti appunto, nella tomba del dado. Anche a Vulci, nel 1848, vennero rinvenuti due dadi d’avorio, durante gli scavi dei fratelli Campanari, e non erano solo numeri quelli segnati ma su questi erano riportati in lettere dell’alfabeto etrusco i numeri stessi ovvero, la serie numerale cardinale del numero scritto: θu, zal, ci, huθ, maχ, sa: uno, due, tre, quattro, cinque, sei.
Dadi di Vulci e dispiegazione delle facciate del dado
Si definiscono dadi di Vulci, di tin e di uni; madre-ati e padre-apa ovvero, della coppia divina Uni–Tin, che dà luogo al gioco combinatorio circolare delle parole-immagine a contrasto e dei numeri alfabetici riportati sui dadi di Vulci.
Il tre e il sei erano numeri sacri per l’antico popolo degli Etruschi.
A tal proposito è doveroso parlare di un personaggio famoso di Tuscania, sebbene la sua famiglia fosse di origini marchigiane, allevatori e agricoltori che alla fine del 1700 si spostarono in questi territori vulcanici fertili, ovvero Vincenzo Campanari che a differenza di suo padre e della sua famiglia amava l’arte, l’archeologia, la cultura e le antiche religioni; seppe intessere importanti legami con l’ambiente della Chiesa che nei territori della Tuscia avevano gran parte dei loro patrimoni.
La famiglia Campanari divenne presto amica del Cardinal Consalvi che finanziò molte delle sue imprese soprattutto di scavo e nel contempo gli permise di frequentare gli ambienti clericali e le famiglie come i Borghese, interessati agli scavi archeologici.
Vincenzo Campanari, con i suoi figli Carlo, Secondiano e Domenico, praticarono “con straordinaria bravura e fortuna” tra il 1828 ed il 1845 attività di scavo a Vulci, e gestirono redditizie imprese commerciali valorizzando e ponendo sul mercato dell’antiquariato i reperti riportati alla luce principalmente nei siti di Tuscania, Bomarzo, Ischia di Castro, Faleri Novi e di Vulci.
Proprio per il suo istinto di archeologo e con la predisposizione alla scoperta di antiche vestigia, esplorando le rive lungo l’antico Armine, il fiume Fiora, ricordato in alcune pergamene come Armenta, ebbe modo di scoprire nei territori dell’attuale Vulci, dei resti di mura e di templi di un insediamento arcaico e pertanto chiese l’autorizzazione di poter procedere agli scavi, cosa che gli venne concessa immediatamente.
Gli scavi portarono alla luce le vestigia di Vulci, importantissima città etrusca che ha restituito testimonianze di materiali e di storia straordinarie.
Ruderi sparsi dell’antica Vulci dal decumano maximum
Questa operazione ebbe dei risvolti da una parte estremamente soddisfacenti dal punto di vista storico, ma diede il via anche alla fuoriuscita dall’Italia delle suppellettili e della gioielleria che via via venivano ritrovati. Vincenzo Campanari aveva un figlio a Londra nella zona di Pall Mall con una bottega di oggetti d’arte, e molto del materiale che venne ritrovato a Vulci fu inviato a Londra per essere venduto sia ai nobili e ai mercanti inglesi ma soprattutto a quelli tedeschi.
Al Campanari e al figlio, venne l’idea di riproporre a Londra ciò che aveva “mostrato”, in anteprima mondiale, nel suo giardino di Tuscania: allestire una mostra con la ricostruzione di ben undici tombe e i relativi corredi, materiale che in parte venne acquistato dal British Museum.
Il Vaticano, che non aveva fatto cenno ad alcun interesse in un primo momento ad accogliere questi materiali, saputa la notizia di questo evento si affrettò ad aprire un’ala dei Musei Vaticani: l’attuale Museo Gregoriano, per volere dell’allora papa Gregorio XVI, ma purtroppo i materiali più prestigiosi ed interessanti avevano già preso posto nelle luminose bacheche del British Museum.
A Vulci e ai suoi tesori hanno attinto a piene mani moltissime città: dallo Staatliche Antikensammlung Museum Kunstareal, nell’area del quartiere di Maxvorstadt, dove è la massima concentrazione museale di Monaco di Baviera. È in questo museo che si trovano due ceramiche attiche: una kylix raffigurante uno dei miti che riguardano Dioniso, il dio del vino che trasforma l’albero dell’imbarcazione in un tralcio di vite carico di frutti. I pirati che hanno tentato di rapirlo vengono a loro volta trasformati in delfini. L’altra ceramica, un cratere, raffigura Achille mentre cura una ferita dell’amico Patroclo. Al British Museum di Londra, un’altra celebre anfora attica raffigura Ulisse legato all’albero della nave circondato dalle sirene. Altri pezzi provenienti da Vulci sono a Parigi, a Boston, al Museo Gregoriano etrusco nei Musei Vaticani, a Copenaghen, a Leiden in Olanda, e in molte altre città che si fregiano delle bellezze etrusche di Vulci. Città integrata alla Nazione Etrusca composta dall’associazione di dodici città, dodecapoli, Vulci costituisce una delle preminenti città-stato dello scacchiere etrusco e dell’Italia preromana. Le ricerche archeologiche, condotte fin dall’Ottocento, restituiscono il quadro di una crescente floridezza. L’area della città etrusco-romana è parte integrante del Parco archeologico e naturalistico di Vulci.
Vulci e le città della Nazione Etrusca
La Nazione Etrusca, sottomessa da Tarquinio Prisco, era formata dalle città di Arezzo, Caere, Chiusi, Cortona, Perugia, Roselle, Tarquinia, Veio, Vetulonia, Volsinii, Volterra e Vulci, che formavano la dodecapoli etrusca.
Vulci è stata al centro di commerci con i luoghi più importanti ed evoluti del mondo antico.
Così come a Tuscania i reggenti erano le famiglie nobili dei Curunas, dei Vipinana e dei Treptie, qui a Vulci governavano i Saties, i Tarnas, i Tutes, i Tetnies, Ramuthas Kansinaia, nobili regi della Maremma Laziale a contatto con i commercianti ed i popoli di approdo nei porti di Vulci.
Sarcofago Tetnies con Idrie – particolare
L’etrusca Velch aveva il porto a Regisvilla, vicino a Montalto di Castro, porto sicuro e tranquillo in grado di accogliere le navi e, all’occorrenza, ripararle.
Dettaglio dal vaso François
I commercianti di Velch (pronunciata con la C dolce di ciliegia) esportavano ed importavano raffinate ceramiche attiche, preziosi balsamari orientali, splendidi gioielli dalle forme più inconsuete, oggetti che ornavano le case e le persone dei nobili abitanti della metropoli etrusca.
Fibula dei leoni d’oro – Museo di Vulci
Di contro, esportava in tutto il Mediterraneo i suoi tesori: buccheri, coppe, kyathos, crateri, olpe, oinochoe, kylix, hydrie, anfore, anche ad imitazione di ciò che proveniva da Kymē per le cerimonie d’addio, alabastra, aryballoi, bronzi, ed in grande abbondanza il vino.
Bacheca Museo di Vulci
Vulci, antico borgo etrusco nell’entroterra del Latium Vetus, aveva due importanti porti sul Tirreno.
L’aspetto marinaro della vita di Vulci, e le indagini archeologiche terrestri, mettono in risalto la scrupolosa attenzione che questo antico popolo poneva alle indagini di ogni tipo, prima della costruzione di qualsiasi struttura necessaria alla vita sociale. Non solo quindi l’attenzione alle situazioni meteorologiche ma anche l’attenta analisi alla conformità del terreno e del tratto di costa dove sfocia il Fiora. Gli antichi costruivano i propri porti tenendo in considerazione i vènti prevalenti, in modo tale da porre le principali opere difensive proprio contro questi vènti. A Montalto, gli antichi etruschi, sapevano dei forti vènti e, nella costruzione di un approdo nel territorio di Vulci, attuarono le misure necessarie per proteggersi dal pericoloso libeccio e dall’afoso scirocco. Nelle varie epoche, il Mediterraneo ha subìto periodici innalzamenti ed abbassamenti di livello del mare. Nel VI sec. a.C. il livello marino si trovava circa 1,50 mt. al di sotto di quello attuale: la linea di costa era più avanzata dell’attuale. È comunque accertato che Vulci disponeva di due porti, due approdi sicuri. Il primo, il più antico, era il porto canale situato alla foce del fiume Armine, il Fiora. Il fiume, detto anche Armenta, era navigabile e le merci che vi giungevano potevano essere facilmente trasportate, tramite chiatte legate con cordoni assicurati a potenti tori aggiogati, che trainandole da terra, si spingevano lungo l’argine del fiume Armine, verso il sicuro attracco più vicino alla città di Vulci.
Le campagne archeologiche comunque, ancora non hanno messo in luce i ruderi del porto canale che dovrebbero trovarsi lungo il corso antico del fiume Fiora in località Ponte Rotto, hanno evidenziato altresì, imponenti opere di contenimento in mattoni di tufo e questo sta ad indicare che in quel luogo potevano attraccare le chiatte che trasportavano le merci giunte alla foce del fiume dai più disparati luoghi del Mediterraneo. Alcune importanti fonti storiche citano il porto canale. Si tratta dell’Itinerarium Maritimum Antoninii, e della Tabula Peuntingeriana.
Tabula Peuntingeriana
L’altro grande attracco fu il Porto di Regisvilla segnato su antichi documenti come Regae.
Ricostruzione del porto di Regisvilla
Questo secondo termine, etimologicamente, deriverebbe da “Regai”, rigai, rizzai, situazione che indica la presenza di “rigàgnoli” d’acqua, ed è situato in prossimità di Punta delle Morelle, a Montalto Marina. Anche questo approdo è citato nell’Itinerarium Maritimum, dove viene posto a sei miglia da Quintiana, l’avamposto etrusco con le fortificazioni quadrangolari a protezione del porto. La denominazione di Regisvilla, la “Città del Re”, citata da Strabóne, proviene dal regnante. Lo storico e geografo greco, afferma che a Regisvilla avrebbe regnato Maleos, il Re dei Pelasgi, gli abitatori del pelagus mare, degli Argivi, gli Argonauti, rifugiatosi in queste terre, dopo i fatti di Troia. Lui, re degli Etruschi, rex Tuscorum e imperatore dei Tirreni, imperator Tyrsenorum, il quale per primo inventò la tromba, insieme al suo popolo è venuto dalla Tessaglia ad abitare questo luogo, e poi si sarebbe di nuovo imbarcato alla volta di Atene lasciando sul territorio suoi parenti. Per Strabóne Re Maleos lasciò il suo regno etrusco per trasferirsi ad Atene ed era della stessa stirpe dei Pelasgi che avevano fondato Caere, Cerveteri. Re Maleos è chiamato Dardano da Virgilio, nell’Eneide. Pur trattandosi di una leggenda, questa testimonianza è considerevole, perché ci indica dell’importanza e dell’arcaicità del luogo, e ci dà un’idea degli antichi contatti stabiliti con i greci.
Vulci estese il proprio controllo nella piana a Nord-ovest della città: sul territorio del bacino del fiume Albegna, sacro per le saline, e dell’Osa, e lungo la costa da Regae, Regisvilla, a Telamon, Talamone. Sulla riva sinistra dell’Armine, l’attuale fiume Fiora, di fronte all’insediamento di Poggio Buco era Pitigliano; procedendo verso Est era il villaggio di Poggio Evangelista e a seguire il centro di Grotte di Castro; da qui si raggiungeva Velzna, Volsinii, da dove, seguendo la discesa del fiume Paglia, si arrivava al Tevere.
Il porto di Regisvilla fu attivo per tutto il Medioevo e la proprietà fu rivendicata dal Comune di Tuscania.
Il porto di Regisvillae poteva assicurare alle navi una sosta momentanea, mentre per le soste più lunghe dovevano attraccare alla foce del fiume Armine, il Fiora.
Vulci si espandeva nell’Etruria meridionale e sorgeva sulla riva destra del fiume Fiora, a 110 chilometri a nord di Roma. Era una città-stato ed esercitava la sua egemonia sui centri minori dell’alta valle del Fiora e sui colli che si affacciano ad ovest del lago di Bolsena. Sono i dati archeologici che confermano l’area interessata, grazie ai manufatti pregiatissimi di questo popolo, rinvenuti nell’area: ricchi corredi funebri sono stati trovati nelle necropoli di Ischia di Castro, Pescia Romana, Sovana. Nessun antico storiografo parla di Velc, della città il cui nome autentico, vero, originale, etrusco, è rimasto sconosciuto, ma riconducibile solo a Velch, Velc, dalla C dolce. Eppure, era una città di oltre centomila abitanti! Sembra che su quel nome sia caduta la damnatio memoriae. Lo scontro con Roma avvenne nel 280 a.C.. La florida città etrusca, forse per supremazia oligarchica, venne privata del suo territorio e del suo sbocco sul mare. Per cancellare quella memoria, quella ingegnosità dei nobili abitanti, su quel porto, su quel terreno umido e malsano, Roma, nel 273 a.C., edificò a poche miglia da Vulci, la colonia romana di Cusi. Passata alla storia con il nome di Cosa, questa colonia ha lasciato nei pressi di Orbetello, tra le due colline, i suoi ruderi.
Resti di una piscinula di Cosa, attuale Ansedonia
Durante le guerre puniche, nel 209 a.C., fu tra le colonie latine che diede a Roma, propri contingenti; Cosa divenne municipium al tempo della guerra sociale ed ascritta alla tribù Sabatina.
La città di Cusi ovvero, Cosa, venne costruita sotto l’Impero Romano con posizione strategica che la rese ben presto un importante centro economico e commerciale; nonostante tutto, decadde in età imperiale. Della struttura originaria di Cosa rimangono alcuni ruderi appartenuti al Foro, all’Arce ovvero, l’acropoli, ai Magazzini del tipo horreum, alle Domus nobiliari e ad antiche costruzioni del V secolo a.C.. Cusi, città etrusca, visitata da Plinio il vecchio, che non la nomina con il suo nome etrusco poiché non degna di essere nominata ma, nella sua opera la indica, come città appartenente al territorio di Vulci e governata da Velch.
Al tempo delle guerre civili Lucio Domizio Enobarbo, che possedeva su quella costa immensi latifondi, marciò con il suo contingente alla volta di Marsiglia (Caesar, De Bello Civilis, I, 34). Quattrocento anni d.C., al poeta latino Claudio Rutilio Namaziano, Cosa appariva già deserta, essendo stata devastata nel V sec. d.C. dai Visigoti di re Alarico. La città di Cosa, risorse nel IX sec. con lo sviluppo dell’area abitativa che venne nominata: Ansedonia. Nell’805 d.C., Cosa, l’attuale Ansedonia, passò ai Franchi e, per volere di Carlo Magno, fu poi donata come feudo, all’Abbazia delle Tre Fontane, alle Aquae Salviae, di Roma, dove sono custodite le reliquie di Sant’Anastasio. Fu una donazione molto discussa della quale resta l’accordo firmato da papa Leone III e da Carlo Magno, in seguito alla conquista di Ansedonia; alcune carte di epoca tarda riportano che nell’805 Carlo Magno, dopo una serie di conquiste a danno dei Longobardi, pose l’assedio ad Ansedonia. L’operazione si protraeva ormai da troppo tempo e si avvicinava il 22 gennaio, festa di Sant’Anastasio. Papa Leone III era sul campo, insieme a Carlo Magno, e venne ispirato da un sogno premonitore: fece inviare a Roma alcuni monaci a prendere le reliquie del Santo; quando queste arrivarono di fronte alla roccaforte nemica le sue mura crollarono come sconquassate da un terremoto. Per questo motivo, in segno di riconoscenza, il papa e l’imperatore con un atto firmato congiuntamente, destinarono al monastero delle Tre Fontane i territori di Ansedonia, Orbetello, Monte Argentario, Marsigliana e l’isola del Giglio.
A partire dal X secolo Ansedonia fu occupata da un nuovo insediamento con un castello fortificato posto sull’altura all’estremità orientale dell’antica città romana. Si tratta, appunto, del castello che nei documenti è nominato tra i possessi della prestigiosa Abbazia delle Tre Fontane.
Tra il XII e il XIV secolo tutta l’area passò attraverso le alterne dominazioni degli Aldobrandeschi, della Repubblica d’Orvieto e infine della Repubblica di Siena, che la distrusse nel 1329.
Nelle vicinanze era il Porto Cosano, detto sugli antichi libri, porto di Cusi, importante per le comunicazioni commerciali con la Corsica e la Sardegna, e lungo la costa, nel luogo conosciuto come Bagni o Spacco della Regina, esistono tuttora importanti reperti archeologici sulla roccia scavata, che ricordano vasche per l’allevamento del pesce.
Nel IX secolo, sorse sul luogo un centro abitato che ebbe nome Ansedonia, dal significato di grande ansa, poi la città ritornò definitivamente deserta. Successivamente anche questo centro venne distrutto, ma rimase il suo nome a tutta la località.
Nell’ansa attraverso lo Spacco della Regina
È da qui, vicino l’insenatura a falce di luna di Ansedonia, nei pressi della grotta lo Spacco della Regina, che inizia la strada per Vulci.
La potenza economica dell’etrusca Vulci, traeva origine dallo sfruttamento delle miniere di argento, oro, ferro e bronzo dei Monti Metalliferi come Populonia e Vetulonia; non a caso l’Argentario è relativamente vicino. Al pari di queste due città, Vulci ebbe relazioni commerciali con la Sardegna; entrambe le zone erano grandi produttrici di metalli preziosi e resistenti.
Tali contatti sono provati da una statuetta di guerriero in bronzo, trovata nella necropoli di Osteria e risalente all’inizio dell’VIII secolo a.C..
Necropoli Osteria ingresso alla tomba della sfinge
Nella necropoli dell’Osteria gli archeologi si sono imbattuti in un’altra tomba principesca nella quale una guardiana d’eccezione è la Sfinge, ritta sulle sue zampe con la testa di donna, il corpo di leone, la coda di serpente e le ali che ricordano la piuma egiziana oltre a ricordare le ali dei leoni “alati”. La Sfinge di Vulci sfoggia tutta la sua raffinata e imperturbabile bellezza del VI secolo a.C., nella sua mole scolpita in nenfro, il tufo scuro dell’Etruria, a evocare la pace dei morti.
La sfinge che ha dato il nome alla tomba
Due tumuli giganteschi chiamati, uno Cuccumella, delimitato da blocchi scuri tufacei di nenfro posti di taglio su un banco di tufo chiaro e sormontati da ulteriori lastroni che reggono il riporto di terra, e l’altro Cuccumelletta, hanno dimostrato quanto a Vulci sia stata fiorente l’industria del bronzo, per il ricco corredo funebre di statue, vasi, spade ed elmi in bronzo che arricchivano i due tumuli.
Maestoso tumulo detto Cuccumella
A Vulci nacque Servio Tullio, il sesto re di Roma, conosciuto tra le popolazioni etrusche con il nome di Mastarna, così come l’imperatore Claudio, appassionato di etruscologia, lo descrive nelle tavole di bronzo di Lione nel 48 d.C., e identifica Servio Tullio con Mastarna, alleato dei fratelli Aulo e Celio Vibenna.
È interessante notare come sua madre fosse addetta alla cura del focolare domestico nella casa di Tarquinio Prisco, un ruolo molto importante nell’antica società romana, per cui il figlio venne soprannominato Servio. È noto che gli etruschi furono la prima popolazione dell’Italia ad adottare un sistema di scrittura basato su un alfabeto, che derivava da alcune varianti dell’alfabeto greco e che, secondo un racconto, più “mitologico” che reale, riportato da Tacito, fu introdotto nelle terre degli etruschi da Demarato di Corinto, ricco cittadino dell’importante polis greca, nonché padre del re di Roma Tarquinio Prisco.
Alfabeto etrusco del VII sec. a.C. rinvenuto nell’ager vulcenses su un reperto
1: lettura da destra a sinistra – 2: lettura da sinistra a destra
La vicenda è destituita di fondamento, e possiamo dunque tracciare la storia della diffusione dell’alfabeto in Etruria grazie ai reperti che si sono conservati ed in mostra nel Museo Nazionale Archeologico Etrusco di Vulci: è dunque possibile ipotizzare che gli etruschi abbiano conosciuto la scrittura alfabetica grazie al tramite dei coloni provenienti dall’Eubea, isola della Grecia, da cui erano partiti i primi colonizzatori di quella che sarebbe in seguito divenuta la Magna Grecia, che si stabilirono anche in Campania. Con i coloni di quest’isola, gli etruschi avevano preso a commerciare, importando ceramiche, gioielli, utensileria.
Hydria 380-360 a.C.
Molti degli oggetti che gli etruschi acquistavano dai coloni greci presentavano iscrizioni: dapprima, gli etruschi introdussero l’alfabeto greco come elemento decorativo per le proprie ceramiche, che imitavano quelle greche. Quindi iniziarono non solo a interpretarlo e a utilizzarlo, ma anche a modellarlo secondo i suoni della loro lingua. Le logiche d’introduzione della scrittura in Etruria furono, tuttavia, molto complesse. Servio Tullio, fu il Re non eletto che governò Roma dal 578 a. C. al 535 a. C.; “non eletto” poiché alla morte di Tarquinio Prisco, per evitare disordini in una città in espansione, venne sottaciuta dalla moglie di Tarquinio, la morte del Re, e la res pubblica venne fatta gestire da Servio Tullio, che dopo sette giorni venne accolto favorevolmente da tutti i cittadini di Roma, ma il malcontento si percepiva tra i nobili! Servio Tullio, per sedare il malcontento aristocratico dovuto alla sua illegittimità nel ricoprire il ruolo del re, attua un’abile mossa politica. Dopo aver radunato il popolo nella valle del Foro, annuncia di abbandonare il potere, stanco di ricevere le continue minacce da parte degli altri pretendenti al trono. Pretendenti interessati soprattutto a soddisfare le proprie ambizioni di potere piuttosto che soddisfare le reali esigenze del popolo romano. Il discorso e le dimissioni ampliano il consenso popolare. Il popolo lo acclama e lo elegge Re di Roma.
Il malcontento della gentes publicae, non è sanato ma ora nessuno può rivendicare la legittimità del trono di Servio Tullio. La ricerca del consenso popolare da parte di Servio Tullio caratterizza le sue riforme sociali molto democratiche ed infatti, elimina la schiavitù per debiti; le terre conquistate sono distribuite ai ceti poveri; crea la figura del soldato-contadino ed una strategia di espansione che trainerà l’espansione di Roma per secoli oltre i confini italici ed organizza il censimento per rendere proporzionali le tasse alla ricchezza. La Via Sacra nella valle del Foro è ormai densa di botteghe artigianali, di posti di relax, di tabernae e di altre floride attività commerciali oltre alle tabernae meritorie per i veterani legionari a riposo. A loro si deve la crescita di Roma ed è a loro che il re concentra l’attenzione. Fa costruire una ulteriore cinta muraria, le Mura Serviane, per contenere la crescita demografica di Roma, riprendendo e rafforzando le prime mura in pietra costruite da Tarquinio Prisco. Queste mura sono ancora oggi visibili per brevi tratti nel centro storico di Roma. Il grandioso baluardo, attribuito al re Servio Tullio, cinse con un possente giro di mura non solo le due città del Palatino e del Quirinale, ma anche le alture del Campidoglio e dell’Aventino, e creò quindi la nuova Roma, la Roma della storia universale.
Nella Tomba François, posta in località Ponte Rotto, Mastarna ovvero, Servio Tullio, è rappresentato mentre libera dai lacci che lo tengono prigioniero Celio Vibenna, l’eroe etrusco.
Affresco nella Tomba François
Forse questa rappresentazione è del tutto pacifica. L’iniziato ai misteri mitraici si presentava con le mani legate dietro la schiena e Mastarna è rappresentato mentre taglia la corda con la decisione e la calma di un antico saggio. Insieme a loro, un Etrusco uccide un Romano dal nome di Ghneve Tarchunies, parente del re.
Nella Tomba François, venne scoperto il grande cratere del VI secolo a.C. ovvero, un vaso nel quale, durante i banchetti, venivano mescolati acqua e vino da servire ai commensali, di produzione attica ma importato in Etruria.
Vaso François di Vulci
Questi vasi a cratere erano frequenti all’epoca degli scambi tra la Grecia e l’Italia, e gli etruschi erano forti importatori di ceramica: in Grecia esisteva un’apposita produzione per il mercato etrusco. Il vaso deve il nome, al suo scopritore: Alphonse François.
In una delle tante scene che lo popolano vediamo proprio una gara di cavalli con, sullo sfondo, un tripode che attende il vincitore.
Alla Tomba François, scoperta nel 1857 dall’omonimo archeologo e Commissario regio di Guerra e Marina del Granducato di Toscana di origine francese, si accede percorrendo il dromos di 27 metri che, tagliato nella roccia, discende nelle viscere della terra.
Accesso al dromos della Tomba François
Si tratta dell’ipogeo della famiglia Saties, costruito nel VI secolo a.C. e usato per circa tre secoli. Lungo il corridoio d’ingresso si affacciano tre camere piuttosto anguste, mentre attorno ad un vestibolo spazioso a forma di T, sono disposte sette camere funerarie dove le deposizioni avvenivano su banchina.
Interno della stanza sepolcrale n° 2 della Tomba François
Il sepolcro, inviolato al momento della scoperta, restituì un ricchissimo corredo, sbalordendo tutti gli archeologi lì presenti.
Scene di guerra tra gli abitanti di Vulci ed altri abitanti
Le pareti del vestibolo presentavano stupendi affreschi del IV secolo a.C., che nella loro ineguagliabile fattura, gli studiosi considerarono l’opera più importante e significativa del rinascimento etrusco. Questi affreschi sono di notevole valore non solo dal punto di vista espressivo e figurativo, ma anche sotto il profilo storico, se si considera che alcune scene si riferiscono alle più antiche vicende degli Etruschi. I dipinti, distaccati e trasferiti nel Museo Torlonia di Roma, a Villa Albani, negli anni Sessanta del 1900, decoravano le pareti del vestibolo e raffiguravano truci immagini dell’Averno, coi demoni della morte ghignanti al cospetto dei prigionieri troiani uccisi sul rogo di Patroclo, altri notissimi miti greci, le effigi dei proprietari della tomba, Vel Saties e Tanchviel Verati, oltre ad alcuni episodi storici e leggendari di noti personaggi etruschi e romani. Rappresentazioni pittoriche che alluderebbero alla contesa tra Vulci e Caere per il possesso di Roma dove si riscontra la glorificazione della famiglia che commissionò gli affreschi, nel ricordo di remote glorie.
Fregi con animali tratti dalla realtà e creati dalla fantasia dell’artista, ornamenti floreali con teste femminili e varie altre soluzioni decorative completano il notevole documento figurativo etrusco. Rilevabile la tipologia dei soffitti che imita varie forme di travatura. La ricostruzione grafica ideale del sepolcro, nella quale si possono osservare la disposizione degli ambienti e l’esatta collocazione originale delle singole scene pittoriche, è visibile nel Museo Nazionale Archeologico Etrusco di Villa Giulia. Furono i principi Torlonia a promuovere, nel 1875, gli scavi della Tomba François, che porta il nome del suo scopritore: Alphonse François.
Ecco come avvenne il ritrovamento sotto gli occhi increduli di Adolphe Noël des Vergers, archeologo, storico, etruscologo, orientalista ed epigrafista del XIX secolo: “Tutto qui era, nello stesso stato del giorno in cui avevano murato l’ingresso. L’antica Etruria ci apparve come al tempo del suo splendore. Sui letti funebri, guerrieri in completa armatura parevano riposarsi dalle battaglie combattute contro Romani e Galli. Per alcuni minuti vedemmo forme, vesti, stoffe, colori: poi, entrata l’aria esterna nella cripta dove le fiaccole tremolanti minacciavano di spegnersi, tutto svanì. Fu come lo scongiuro del passato, il quale era durato lo spazio di un sogno e poi sparito, quasi a punirci della nostra sacrilega curiosità…”
La tomba era sorvegliata da leoni ringhianti, animali del sole, guardiani di coloro che non sono morti ma che “vivono nel loro stato occulto e inaccessibile come gli esseri divini scesi dal carro di fuoco sulla terra”, aveva detto Esiodo, il primo poeta greco. Come per confermare la verità storica e l’importanza della famiglia Vibenna, venne trovato nel tempio di Vulci, un bucchero del VI secolo a.C. con l’iscrizione votiva del donatore: Avile Vipennas, il fratello di Celio Vibenna; e dei tripodi poggianti su zampe leonine e bruciaprofumi ornati di sbalzi rappresentanti sileni e danzatrici, conservati nel Museo Gregoriano del Vaticano.
Bucchero detto Vipenna VI sec. a.C.
Vulci, come le altre città etrusche, si rese conto del pericolo che poteva venirle dalla travolgente potenza di Roma.
Vulci preparò il suo esercito cercando anche degli alleati e nel 282 a.C., insieme alla città di Volsinii, si alleò con Pirro, il re dell’Epiro, sbarcato a Taranto. Roma allora, in breve tempo mise insieme tre eserciti: uno rimase in città come guarnigione, un altro, comandato dal console Tiberio Coruncanno andò contro Vulci, mentre l’altro di cinquantamila uomini, si schierò contro Pirro. Vulci e Volsinii caddero sotto la furia delle falangi romane. Vulci fu costretta a cedere a Roma una parte del territorio costiero e larga parte di quello interno. La città etrusca era sfinita tanto che, al momento di dare aiuti a Scipione per la campagna contro Cartagine, non riuscì ad assembrare uomini e mezzi da guerra poiché Roma aveva preteso tutto, ma proprio tutto, dalla città etrusca di Vulci.
Mappa della dislocazione dei popoli. Karthago era nel golfo di Tunisi
Ormai lo splendore della lucumonia, la reggenza dei re etruschi, era spento per sempre: il suo territorio venne attraversato da strade romane e, occupato dai legionari veterani ed il territorio fu ridotto a pascolo così come in alcuni punti si presenta ancora oggi.
Lo splendore di Vulci, il suo fascino, è ancora vivo, e si ravvisa nel centauro, nella statuetta in gesso alabastrino della Tomba di Iside, custodita al British Museum o nella coppia di coniugi abbracciati sul Lectus Genialis, custodita a Boston al Museum of Fine Arts.
Nel territorio di Vulci è rimasto il mito della devastazione del cinghiale a Caledonium e del sacrificio di Meleagro, a ricordare l’antico spirito etrusco, mentre il porco cinghialesco grugnisce ancora nei boschi della Maremma Laziale tra Canino e Montalto di Castro, in provincia di Viterbo.
Fossato e mura del castello dell’Abbadia
Nell’alto-medioevo, al di là del fiume Fiora, viene edificata l’abbazia dei monaci benedettini fortificata di San Mamiliano, della quale resta traccia, oltre che nei documenti d’archivio, anche nel Castello della Badia del IX secolo, e completato in epoca medioevale, nel XII secolo, dai monaci cistercensi sui resti dell’antica abbazia fortificata dedicata a San Mamiliano, il Castello dell’Abbadia, nel tempo divenne un’importante roccaforte e centro d’accoglienza per tutti i pellegrini e viaggiatori tra cui anche i Cavalieri Templari. Per tutta l’età medievale il Castello dell’Abbadia, fu al centro di contese tra le famiglie degli Aldobrandeschi, dei Di Vico ed il Comune di Orvieto. Nel XVI secolo passò prima in mano ad Alessandro Farnese, futuro papa Paolo III, e poi divenne dogana dello Stato Pontificio, per via della stretta vicinanza al Granducato di Toscana. Nel 1808 fu acquistato dal principe di Canino, Luciano Bonaparte, e dal 1853 divenne proprietà di Alessandro Torlonia. Infine, dopo decenni di decadenza e abbandono il castello nel 1963 fu acquisito dallo Stato Italiano. Dopo un ampio intervento di restauro, eseguito dalla Soprintendenza Archeologica, il Castello dell’Abbadia, è diventato la sede del Museo Nazionale Archeologico Etrusco di Vulci, e venne inaugurato nel 1975. La sala al piano terra del Museo, è stata assegnata ad esposizioni temporanee mentre il piano superiore ha conservato la funzione di accogliere l’esposizione permanente del museo con i materiali che coprono un arco temporale che va dall’Età del Bronzo alla prima Età del Ferro fino al III-II secolo a.C.
Nel museo sono in mostra: i ricchi corredi delle Necropoli e delle tombe di Vulci, come il recente ritrovamento delle manine d’argento e oro, che per raffinatezza e simbologia, si allineano ai numerosi reperti d’oreficeria, che rivelano l’abilità artigianale e la conoscenza dei metalli, e anche della ricchezza economica che caratterizzava questo popolo. Da ammirare i pregevoli e raffinati vasi etruschi in bucchero e i vasi greci figurati e con parti di iscrizioni.
Tra le opere, l’hydria, il vaso greco utilizzato principalmente per trasportare acqua, ma anche come urna cineraria o come contenitore per le votazioni, attribuito al Pittore di Micali che sottintende Giuseppe Micali, lo studioso e storico del risorgimento italiano, ed il corredo rinvenuto nella Tomba della Panatenaica, della Necropoli dell’Osteria.
La produzione di ceramiche esposta nel Museo, offre un panorama cronologicamente e tipologicamente completo sulle attività produttive e sugli scambi commerciali dell’antico centro etrusco, dalla tarda età del bronzo alla romanizzazione. Nel cortile del Castello dell’Abbadia sono ammirabili diversi elementi architettonici e decorativi di tombe della necropoli etrusca e romana.
È nel Castello dell’Abbadia, il Museo Nazionale Archeologico Etrusco della città di Vulci
La passerella sul greto del fiume Fiora, alle falde del castello, ha consentito di recuperare l’originale rapporto tra la città e le necropoli orientali scavate nel tufo, consentendo ai turisti il giro completo di visita e quindi il raccordo tra l’area urbana ed i grandi monumenti funerari etruschi, in particolare la Tomba François ed il grande Tumulo di Cuccumella.
Demoni alati come Tuchulcha, il demone della morte, simile a un avvoltoio ma con la testa coperta di serpenti. Esistevano anche divinità locali, come Voltumnae, nominata Velth o Vel, dio supremo del pantheon etrusco, definito da Varrone “deus Etruriae princeps”, protettore della città di Volsinii e titolare del vicino santuario federale della Lega delle dodici città etrusche, dodecapoli, il Fanum Voltumnae, che recenti studi individuano nell’area di Tuscania.
Tuchulcha, con il volto formato da parti di bestie diverse, e Achrumune, armato di ascia e probabile guardiano del fiume Acheronte, affollano le pareti delle necropoli di Vulci, e non manca Cerun, Gerione, orribile uomo a tre teste.
Il ponte a sella che unisce il museo archeologico etrusco di Vulci agli spazi inesplorati
Di tutti, solo il demone alato Vanth, di sesso femminile, sembra benevolo, e guida gli spiriti nell’Oltretomba con una torcia accesa. Alcuni demoni etruschi, citati anche dai Romani, hanno valicato le porte del tempo e sono stati ripresi come guardiani dell’Inferno nella Commedia di Dante, che li conobbe grazie ai classici latini.
La necropoli, che è nel Parco Naturalistico Archeologico di Vulci inaugurato il 12 luglio 1999, si trova a circa 1 km dal castello, con tombe che risalgono a 2800 anni fa, come il tumulo della Cuccumella, la Tomba delle Iscrizioni Etrusche e Romane e la Tomba François.
Il Tumulo della Cuccumella, con un diametro di 70 metri e un’altezza di 18 metri, è costituite da una struttura circolare, il tamburo, costruita con blocchi di pietra e sormontata da una cupola, anch’essa di pietra. All’interno, un corridoio nominato dromos, conduceva alla camera funebre, orientata a est, dove il corpo del defunto era deposto su un letto di pietra e circondato, in
alloggiamenti laterali, dal corredo. Al termine del rito di sepoltura, il dromos veniva sigillato con pietre e terra per evitare eventuali profanazioni della sepoltura.
La Tomba delle Iscrizioni prende il nome dalle iscrizioni che si trovano al suo interno: diciassette Etrusche e sei Romane.
La tomba, si trova all’inizio della necropoli del Ponte Rotto, ed è composta da un ampio atrio con sei camere sepolcrali.
Nel ricordo dei viaggiatori del Grand Tour e dei turisti di oggi, è ammirevole il Ponte della Badia, che scavalca il fiume Fiora e identifica Vulci, con l’ampio territorio. Il ponte, venne iniziato dagli etruschi ed i piloni principali sono in tufo nenfro, mentre la struttura a tre archi risale al I secolo a.C.; dopo ripetute esondazioni cruente del fiume Fiora e l’impeto delle sue acque, ebbe un breve disperato abbandono; in età romana riprende la costruzione e la fortificazione, con i tre archi, del Ponte della Badia, tuttora in funzione, insieme al relativo acquedotto, che da secoli ormai è distrutto. Un’iscrizione latina di Vulci ricorda l’ordo et populus Vulcentium e un’altra, i quattuorviri iure dicundo.
Suggestiva immagine d’insieme
Il ponte fa parte integrante del complesso della Badia che comprende anche il Castello, costruito a strapiombo sulla riva scoscesa del fiume Fiora e quindi contiguo al ponte, con il quale forma un tutto unico. Il complesso si inserisce in un paesaggio di straordinario valore, caratterizzato da forre sorprendenti e dall’orrido del fiume Fiora, la profonda spaccatura nella roccia, che interrompe i vasti pianori sui quali è sorta la città etrusca di Vulci circondata da una corona di necropoli. Il “Ponte Rotto” insieme al “Ponte della Badia” e al modesto “Ponte del Fontanile”, costituiva uno dei transiti obbligati per giungere a Vulci.
Ponte dell’Abbadia da sotto l’arco
Il Ponte Rotto, deve il suo nome al fatto che neanche la perizia dei costruttori etruschi lo salvò dall’impeto delle acque che non ebbero pietà neanche dell’altro ponte, tanto che si rese necessario ricostruirlo nel corso del I secolo d.C.. Il Ponte Rotto, contrariamente all’altro, venne abbandonato per secoli, ed è rimasto sul fondo del letto del fiume coperto da alghe, muschi, limo e ciottoli finché l’amore per la Storia etrusca non lo ha destato dal sonno e rialzato dal suo letto sott’acqua. Questo Ponte Rotto, insieme a quello a schiena d’asino della Badia e a quello segnalato da Luciano Bonaparte, principe di Canino poco più a sud di fronte al santuario di Fontanile di Legnisina di Vulci, che era fuori dall’area urbana, costituivano i tre passaggi per giungere a Vulci.
Nel corso del IV secolo a.C. a Vulci si avvia un nuovo e intenso periodo di fervore economico ed edilizio che molti studiosi definiscono rinascimento vulcense, che porterà alla ristrutturazione e alla realizzazione di monumentali opere pubbliche, la manutenzione delle Mura, opera poligonale, di pianta quadrangolare, di un miglio di circuito, con 14 torri e 5 porte; il Foro e l’arcaico tempio alla Mater Matuta che con l’avvento dei romani verrà ampliato diventando il Tempio Grande detto di Zeus, nell’area centrale del pianoro.
Tempio grande a gradoni della Mater Matuta V sec. a.C.
Sul basamento, in uso da età tardo arcaica a quella romana, del Tempio Grande aventi i lati di m. 36,5 x 24,5, sono visibili sei file di blocchi squadrati di tufo e, sul lato est, una parte del rivestimento in nenfro, il particolare tufo scuro della zona, che foderava in origine la struttura.
Basamento del Tempio Grande
Il Tempio Grande, risale al V secolo a.C., e almeno la base è di età arcaica; venne restaurato in età imperiale.
L’alzato del tempio era costituito da un’unica cella, dove seduta era la statua arcaica della Mater Matuta, con un colonnato continuo sui quattro lati, raddoppiato sulla fronte da quattro ulteriori colonne; era inoltre preceduto da un avancorpo, tutt’ora visibile, con gradinata centrale. Il tempio rivela almeno due fasi costruttive. La più antica è del V sec. a.C. dell’adorazione dell’arcaica dea Madre; si riferiscono al IV sec. a.C. le terrecotte architettoniche, anfisse e merope, della parte est dell’area così come le colonne spezzate ed alcuni capitelli con accenni dorici a strati sovrapposti ancora in fase di rinvenimento archeologico. Nella prima età imperiale, I sec. d.C., il tempio subì un completo rifacimento, venne dedicato a Giove e comportò la sostituzione degli elementi lignei dell’alzato con strutture in travertino e in opera cementizia. Appaiono accenni di colonne ioniche. Questa ripresa si ricollega ad una completa riorganizzazione dell’insediamento e ad una volontà di riaffermazione civica voluta dalle antiche famiglie aristocratiche protagoniste dei fasti delle epoche passate. Ne sono testimonianza le scenografiche facciate dei sepolcri monumentali che tra il IV e il III secolo a.C. sono costruiti nella Necropoli orientale di Ponte Rotto, oppure la nota Tomba François, della nobile famiglia dei Saties, con il celebre ciclo pittorico che contrappone episodi della lotta tra Etruschi e Romani a quelli, epici, della guerra tra Greci e Troiani, allo scopo di richiamare un passato eroico.
Gran parte dei resti oggi visibili sono riferibili alla struttura ricostruita nel corso del I secolo d.C., costituita da quattro piloni e cinque arcate di 12 metri ciascuna, per una lunghezza complessiva di 85 metri.
Così come la sovrastante strada romana ricalcava un precedente asse viario, anche il ponte romano ne inglobava uno analogo di epoca etrusca al quale sono pertinenti quelle parti realizzate in tufo rosso. Prima della conquista romana del 280 a.C. passato il Ponte, era una grande porta, difesa da due torrioni laterali oltre la quale era il quartiere suburbano. Sfruttando il corso del Fiora, uomini, prodotti e merci partivano verso l’emporion di Regae, risalendo la corrente, per raggiungere Vulci, favorendo così lo straordinario sviluppo culturale ed economico che è stata la base della più grande Metropoli dell’antichità.
La mortalità infantile era alta e necropoli e sepolture erano sparse nell’area di Vulci.
Sepoltura del bimbo chiamato il piccolo principe
Qualche anno fa è stata rinvenuta la tomba di un bambino appartenente ad una famiglia aristocratica etrusca risalente a ottocento anni a.C..
All’interno del sarcofago è emerso un ricco corredo funerario.
Interno del sarcofago del bambino
Il pezzo di maggiore rilievo è un’anfora di argilla con motivi geometrici che ha delle decorazioni a rilievo nella parte alta a forma di piccole brocche. Una decorazione rarissima ma tipica di quest’area di Vulci tanto è vero che un’altra anfora similare, sempre di Vulci, è esposta al Museo del Louvre, a Parigi. Si tratta di un reperto rarissimo, importante e prezioso, perché testimonia la presenza di una scuola di decorazioni a Vulci. La mano che ha realizzato i vasi è quindi la stessa ed è datata tra la fine dell’VIII secolo e l’inizio del VII ovvero l’inizio della civiltà etrusca.
Il corredo, all’interno della tomba comprende alcuni piccoli oggetti personali, delle ossa di un bambino di sei anni, delle falangi delle dita e i resti di un panno che conteneva le ceneri umane in seguito al rito della cremazione. Questi ritrovamenti fanno dunque presumere che si tratti del sepolcro di un bimbo. Si tratta di un maschio per la presenza di una corta lancia di ferro.
Nella campagna di scavo è stata rinvenuta, tra i tantissimi oggetti, una statua, sempre di origine etrusca, raffigurante un leone alato risalente al VI secolo a.C..
Un tesoro ritenuto dagli esperti così prezioso da essere candidato tra le cinque scoperte archeologiche più importanti del 2019.
Il territorio vulcense è da ritenersi una miniera d’oro, poiché ci sono centinaia di migliaia di tombe inesplorate su ettari di terreno. Tutto questo perché qui a Vulci c’è stata una città che già esisteva 8 secoli prima di Roma. Nel 2016 vennero rinvenute 106 tombe in una ventina di metri quadrati, e sono centinaia gli ettari di terreno ancora da scavare, che rende Vulci un punto di interesse turistico culturale pregevole.
L’amministrazione comunale ha assicurato il ripristino di un passaggio comodo anche per le persone disabili che servirà a valorizzare ulteriormente gli scavi archeologici, in quanto consentirà di camminare un metro sopra le tombe. Avrà degli originali balconcini all’interno dei quali, attraverso ampi schermi virtuali con un sistema a prova di Covid-19, comparirà il corredo che si trovava all’interno della relativa tomba. Sarà un po’ come immedesimarsi nel momento della scoperta insieme agli archeologi, che qui vengono a lavorare o a perfezionare gli studi archeologici da tutto il mondo. Il parco di Vulci, al confine tra Lazio e Toscana, è aperto tutto l’anno e si estende per circa 120 ettari. Rilevante è la cinta muraria, realizzata in blocchi di tufo, con le cinque porte di accesso, delle quali tre sono in ottimo stato di conservazione: la Porta Ovest, la più grande, è della seconda metà del IV sec. a.C., l’ingresso è un avancorpo di forma triangolare al cui interno è uno stretto passaggio pedonale a forma di Y. La Porta Nord, di dimensioni più modeste, ha restituito un deposito di oggetti votivi databile tra il III e il I sec. a.C.. La Porta Est, conduceva al fiume, al porto fluviale, ai magazzini delle anfore pronte per essere imbarcate. Tra i tratti di mura conservati, nel versante est, sono considerevoli le mura ciclopiche dell’acropoli etrusca: in questo punto la struttura ha uno spessore di circa 4 mt ed è in ottimo stato.
Nel Foro Vulcense, risalente al II secolo d.C., risalta l’Arco di Sulpicio; il grande devastatore Sulpicio, così come racconta Tito Livio poiché nel 355 a.C., il console Gaio Sulpicio Petico devastò il territorio di Tarquinia e diretto verso Vetulonia e Populonia si fermò a Vulci, risparmiandola. L’arco venne innalzato a sua magnificenza nel mezzo del decumano massimo.
Arco di Sulpicio e sua iscrizione
La zona del foro, riconoscibile per l’Arco di Sulpicio, è dominata da due strutture che sono visibili sul pianoro di Vulci: il primo è l’Edificio in laterizio, che ricorda molto l’interno per riunioni senatorie, dove nella grande nicchia vuota si presuppone esistesse una statua in bronzo.
Edificio senatorio detto, in laterizio. Si noti la grande nicchia
Il secondo, è l’Edificio absidato, che ricorda l’esistenza di una basilica tardo romana, centro di commerci, demolita per avversità alla politica dell’Vrbis Romae.
Edificio ad abside nel foro vulcense
Nei pressi del Foro è la domus del Criptoportico, lussuosa dimora aristocratica che risale alla fine del II sec. a.C., con pregevoli decorazioni e splendidi mosaici a pavimento.
Pavimento in bianco e nero della domus del Criptoportico
Si distingue il fresco dromos, il corridoio del Criptoportico.
Il corridoio della domus
Adiacente alla domus particolare importanza ha il Mitreo, da cui provengono due pregevoli gruppi statuari di cui uno è della tauromachia con la divinità, ed altri marmi connessi al culto iniziatico del giovane guerriero.
Il mitreo di Vulci
È il Mitreo, un santuario dedicato a Mithra, risalente al III secolo; la Tomba dei Soffitti, risalente al VII secolo a.C., la Tomba François la più celebre, il Tumulo della Cuccumella e la Tomba delle Iscrizioni. Le iscrizioni sono presenti e ben visibili specie nell’atrio centrale e negli ingressi delle sei camere sepolcrali di cui è composta la tomba.
In alto il Castello dell’Abadia, il Fiora, l’antico Armenta, e la cascata nel lago del Pellicone
Cascata del fiume Fiora
La natura incontaminata dell’area di Vulci, presenta i canyon di basalto nero e di calcare opalescente scavati dal fiume Fiora nelle rocce di origine vulcanica. Il fiume, dopo una cascata di sei metri, si allarga nel lago del Pellicone dalle acque trasparenti, e si ha l’impressione di essere catapultati in dietro nel tempo per trovarsi d’improvviso, all’inizio dell’anno 1000.
Lago del Pellicone
Bastiani di cavalli dei nobili della città-stato di Vulci, portavano gli armenti qui a lavare, e le loro pelli ed il crine brillavano al sole. Venivano qui lavati non solo i cavalli ma anche i buoi da corteo. Questi bastiani erano chiamati pelliconi poiché lavavano le pelli in queste acque, così è rimasta la denominazione del lago.
Suggestivo lago del Pellicone
Le acque limpide e fresche del fiume Fiora, l’antico Armenta, corrono verso il mare e sfociano nel Tirreno nei pressi di Montalto di Castro.
Da non perdere la sosta alla Trattoria “Casale dell’Osteria” nella zona del Parco archeologico di Vulci, con piatti tipici della Maremma, dove la simpatia e la cortesia introducono piatti genuini oltre alle verdure e ai tanti piatti gustosi della tradizione vulcense, e ai crostini con il classico patè preparato in casa.