Che posizione assumerà, sulla questione palestinese-israeliana, la nuova amministrazione USA, alle cui posizioni, fortemente filoisraeliane, ha fatto riferimento (nemmeno tanto velato) Bibi Netanyahu, commentando il dibattito alla Conferenza internazionale sul Medio Oriente di Parigi del 15 gennaio ( cui Israele polemicamente non ha partecipato, e dove mancava una rappresentanza palestinese ufficiale)? Intanto non era stata certo positiva l’uscita – appena poche ore dopo l’elezione di Donald Trump, a novembre – del ministro dell’ Educazione israeliano, legato alla destra religiosa integralista: precipitatosi a dire che il cambio della guardia in USA avrebbe senz’altro comportato la fine del progetto d’uno Stato palestinese sullo stesso suolo d’ Israele. “Con Trump” , definito “sincero amico d’Israele”, aveva detto, in parziale, ambigua, correzione, il premier Netanyahu, “agiremo insieme per portare avanti la sicurezza, la stabilità e la pace nella nostra regione”.
Dopo le polemiche, a ottobre scorso, per l’ approvazione, nel Comitato per il patrimonio mondiale dell’ UNESCO, di due risoluzioni sul futuro dei Luoghi sacri di Gerusalemme che, criticando Israele per la sua gestione dei luoghi stessi e la sua politica di scavi archeologici, parlano solo di moschea Al-aqsa, citando comunque solo le denominazioni arabe del sito, ma non di Monte del Tempio nè di Muro del Pianto, a fine dicembre il Consiglio di Sicurezza dell’ ONU, con l’astensione degli USA ( per la prima volta, in una risoluzione riguardante appunto Israele), ha approvato la celebre “Risoluzione-bomba”. Che, in sintesi, definendo illegali, secondo il diritto internazionale, tutti gli insediamenti di coloni realizzati da Israele, dopo la guerra del ’67, nei Territori palestinesi occupati ( Gerusalemme est compresa), chiede al Governo israeliano d’interrompere immediatamente ogni attività d’insediamento in questi territori. E, ribadendo che i confini di prima della Guerra dei Sei giorni devono essere quelli di riferimento per la ripresa d’ ogni possibile trattativa (salvo possibili scambi territoriali concordati), chiede ad ambo le parti di riprendere al piu’ presto “negoziati credibili su tutte le questioni riguardanti lo status finale nel processo di pace in Medio Oriente”. Sulla base delle precedenti risoluzioni ONU e dei parametri della conferenza di Madrid del ’91, del piano di pace della Lega araba del 2002 e della “Road map” del “Quartetto” (in realtà “Quintetto”, ONU-UE- USA-Russia- Gran Bretagna) per il Medio Oriente del 2008-2010. E’ evidente che, anche se la nuova amministrazione Trump dissentisse totalmente da questa risoluzione, difficilmente potrebbe ignorarla nella sua politica estera, a meno di non riuscire a mettere insieme, all’ ONU, una nuova maggoranza disposta appunto ad abolirla (sia le risoluzioni dell’ UNESCO che quella di dicembre del Consiglio di Sicurezza ONU, comunque, riconoscono il diritto di Israele ad esistere e a vivere nella sicurezza: sottolineando però, in sostanza, l’indispensabilità d’un netto cambio di direzione della sua politica).
“Quella di fine dicembre è una risoluzione senz’altro molto importante”, commenta Salameh Ashour, Presidente emerito della Comunità palestinese di Roma e Lazio, e portavoce della Comunità palestinese in Italia. “Per la prima volta gli USA decidono d’ astenersi, in una risoluzione ONU che chiama in causa Israele, anzichè appoggiare a priori la sua politica: e che fa capire chiaramente che, anche se il piu’ delle volte il mondo tace, ciò non vuol dire che non s’accorga di quel che Israele sta facendo nei Territori palestinesi. Certo è’ una presa di posizione tardiva, perchè sarebbe dovuta avvenire molto prima, e non ora che Israele ha inglobato, in pratica, ben il 60% del territorio della Cisgiordania, depredando i palestinesi di zone spesso essenziali per la loro agricoltura. Comunque ci chiediamo: a questo punto, specie dopo questa nuova Conferenza internazionale di pace di Parigi, il Consiglio di Sicurezza dell’ ONU che farà? Lascerà marcire la situazione? E dinanzi a una nuova amministrazione USA dichiaratamente filoisraeliana, è piu’ importante che mai il ruolo dell’ Europa. Tanti Paesi europei – a maggior ragione quando lo Stato di Palestina ormai è stato riconosciuto ufficialmente, negli ultimi anni, da piu’ di 140 Stati – devono smetterla di comportarsi, nei confronti di Israele, come un genitore irresponsabile che, coccolando troppo il figlio, viziandolo per anni, lo fa diventare poi un delinquente. L’ Autorità nazionale Palestinese, comunque, proseguirà la sua politica nonviolenta di lotta diplomatica, di confronto con Israele sul piano internazionale: ricorrendo eventualmente, nei suoi confronti, anche al Tribunale Penale Internazionale”.
Intanto, i 75 Paesi che hanno partecipato alla Conferenza di Parigi chiedono a israeliani e palestinesi di “impegnarsi per una soluzione a due Stati” e di “astenersi da passi unilaterali” ( il riferimento, pur sibillino, s’intende sia alla costruzione, da parte di Israele, di nuovi insediamenti nei Territori occupati che all’ intenzione del neopresidente USA, Donald Trump, di spostare l’ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme). Dalla conferenza è emersa “una posizione equilibrata grazie anche al nostro contributo”, ha detto il ministro degli Esteri, Angelino Alfano, ai microfoni di Rainews 24. “La questione – ha spiegato il titolare della Farnesina – non si può risolvere solo con gli insediamenti israeliani, c’è il tema di chi incita alla violenza e chi considera eroi o martiri i terroristi. Finché sarà così, non ci sarà pace e sicurezza in Israele”. Comunque, “accanto alla riaffermazione della politica dei due Stati – spiegano fonti della Farnesina – e agli insediamenti israeliani come ostacolo a questa politica, nel documento finale della Conferenza sono criiticati l’incitamento a ‘tutti gli atti di violenza e terrore’ e le dichiarazioni ‘che infiammano’. Per noi – spiegano le stesse fonti – era importante che questa dichiarazione fosse in linea con il rapporto del Quartetto” sul Medio Oriente”. Altro contributo italiano, l’importanza data, nella dichiarazione finale, ai “negoziati diretti fra le due parti. Nulla – spiega ancora la Farnesina – può essere imposto, noi volevamo rafforzare questo concetto e ci siamo riusciti. Accompagnamento, sostegno sì, ma nulla al posto del negoziato fra le parti”.
“La creazione di uno Stato palestinese”, ha ribadito il presidente francese Hollande (che, osserviamo, incassa un parziale successo diplomatico, certo insuifficiente per riqualiificare davvero una presidenza “senza infamia e senza lode”, sideralmente lontana da quella di Francois Mitterrand), “resta l’unica possibile soluzione al conflitto. La soluzione dei due Stati continua ad avere ampio sostegno internazionale. Ma è minacciata dalla continua costruzione di nuovi insediamenti” per i coloni ebrei nei territori occupati da Israele in Cisgiordania, “dalla debolezza di chi lavora per la pace, dalla sfiducia reciproca delle parti in causa e dai terroristi, che hanno sempre temuto un accordo di pace”. “Non si tratta – ha concluso Hollande – di dettare ai Paesi i binari di una soluzione, ma di prendere atto che quella dei due Stati è in pericolo. E di mettere nell’agenda il processo di pace”.
Fabrizio Federici