ROMA – “Michela ha scelto di dare alla luce una bambina con un parto in anonimato perché temeva di non essere in grado di far fronte alle necessità della piccola. Una volta tornata a casa, si sente svuotata, le manca la sua bambina, quindi ci ripensa e chiama immediatamente in ospedale per comunicare la decisione di riconoscere sua figlia. Sono passati solo cinque giorni, ma l’ospedale non la informa correttamente sulla procedura da seguire e per la bambina inizia l’iter per l’adozione. È solo una delle tante storie di donne che si sono viste negare il diritto alla maternità perché hanno deciso tardivamente di riconoscere il proprio figlio alla nascita. L’articolo 30 del nostro Ordinamento di Stato Civile stabilisce che il parto in anonimato sia un diritto riconosciuto a tutte le madri, che possono così recarsi in ospedale per partorire in sicurezza e senza alcuna discriminazione. La legge però tutela anche il diritto della madre biologica a ripensare la sua decisione, subordinandola comunque alla tutela del supremo interesse del minore. Il tempo concesso alla madre per un eventuale ripensamento è di dieci giorni, superati i quali il Legislatore impone l’apertura di un procedimento di adozione abbreviata per il neonato, ai sensi dell’articolo 11 della legge 184/1983. La madre, con particolari e gravi motivi che le impediscono di formalizzare il riconoscimento, può chiedere al Tribunale per i minorenni, presso il quale è aperta la procedura per la dichiarazione di adottabilità del neonato, un periodo di tempo per provvedere al riconoscimento. In questi casi la sospensione della procedura di adottabilità può essere concessa per un periodo massimo di due mesi, nei quali la madre deve però dimostrare di aver mantenuto una continuità di rapporto con il figlio. Per la madre che non ha riconosciuto il figlio alla nascita esiste pertanto un limite temporale imposto dalle disposizioni di legge oltre il quale il diritto alla genitorialità può essere compromesso dal mancato esercizio del diritto al riconoscimento del nascituro. Quando invece a tornare sui propri passi è un uomo, le cose si fanno decisamente più semplici”. Lo scrive in una nota stampa di approfondimento giuridico sull’articolo 250, legato appunto al riconoscimento dei figli, il Comitato Madri contro la violenza istituzionale. Una vicenda venuta alla ribalta con la storia di una mamma italiana che proprio in conferenza stampa alla Camera dei deputati portò all’attenzione dell’opinione pubblica e delle Istituzioni cosa accade nella vita di un minore quando il padre, che non voleva la gravidanza e anzi chiedeva l’aborto, torna sui sui propri passi. Ne era nata anche una proposta di legge, trasversale, presentata dalla deputata Laura Boldrini. Ma andiamo per gradi.
PARTO IN ANONIMATO, SE LA MAMMA BIOLOGICA CI RIPENSA…– “Il diritto di partorire in anonimato non era previsto nell’originario Ordinamento di Stato Civile (approvato con Regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238) e ha trovato espresso riconoscimento normativo solo in tempi relativamente recenti con la legge 127/1997 che ha riformulato il testo dell’articolo 70 del Regio Decreto 1238/1939 (che si occupava della dichiarazione di nascita), prevedendo il rispetto della volontà della madre di non indicare le proprie generalità in modo da non lasciare elementi che consentano nemmeno in futuro la sua identificazione. La dichiarazione di nascita va resa entro i termini massimi di 10 giorni dal parto e permette la formazione dell’atto di nascita (l’identità anagrafica), l’acquisizione del nome e la cittadinanza. Se la madre vuole restare anonima, la dichiarazione di nascita è fatta dal medico o dall’ostetrica. Scatta a questo punto la segnalazione alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni della situazione di abbandono del neonato non riconosciuto con l’apertura di un procedimento di adottabilità. Al neonato è così garantito il diritto a crescere ed essere educato in famiglia assumendo lo status di figlio legittimo dei genitori che lo hanno adottato. Anche questa misura tuttavia non garantisce alla donna di recuperare un ruolo genitoriale, il quale rimane sottoposto alla discrezionalità dell’organo giudicante. Il solo legame biologico con la madre naturale non rientra infatti nella nozione di vita privata e familiare che il Legislatore intende preservare. Il concetto fondamentale è che, nel momento in cui il bambino instaura un rapporto con i genitori affidatari, fosse anche per brevissimo tempo, questo viene tutelato se corrisponde al suo interesse, in contrapposizione con la mancata relazione con la madre biologica, il cui ripensamento avviene tardivamente rispetto ai legami che nel frattempo il figlio ha stabilito. Sovente la Cassazione si è pronunciata anteponendo i legami acquisiti a quelli biologici intendendo così tutelare l’identità costituita del minore”, come accaduto anche in recenti casi di cronaca.
SE CI RIPENSA IL PADRE BIOLOGICO INVECE… – L’articolo che disciplina queste situazioni è il 250 c.c. che al terzo comma recita testualmente: “Il riconoscimento del figlio che non ha compiuto i quattordici anni non può avvenire senza il consenso dell’altro genitore che abbia già effettuato il riconoscimento”. “Di fatto la libertà del genitore che desidera riconoscere il figlio in un momento successivo viene compressa e (apparentemente) condizionata al consenso del genitore che, per primo (generalmente la madre), si sia assunto la responsabilità morale e giuridica della filiazione. Il comma successivo, tuttavia, limita il potere interdittivo del primo genitore se, posto al vaglio del Giudice, il riconoscimento del secondo genitore sia corrispondente all’interesse del minore: “Il consenso non può essere rifiutato se risponde all’interesse del figlio. Il genitore che vuole riconoscere il figlio, qualora il consenso dell’altro genitore sia rifiutato, ricorre al giudice competente”.
Questo è il punto che denuncia il Comitato Madri e che l’avvocato Andrea Girolamo Coffari, proprio sul caso della mamma che portò all’attenzione delle Istituzioni la sua storia, presentò come forma di discriminazione grave tra la figura della madre e quella del padre.
ECCO COSA SUCCEDE AL MINORE….-‘Al Legislatore- scrive il Comitato- pare non importare nulla dell’identità acquisita dal minore in conseguenza dell’abbandono paterno al punto che, previa l’assunzione ‘di ogni opportuna informazione e disposto l’ascolto del minore’, la legge gli consente di adottare ‘eventuali provvedimenti temporanei e urgenti al fine di instaurare la relazione’ con il padre, garantendogli l’esercizio di un diritto prima ancora di essere legalmente genitore. Quella stessa relazione che, a parti inverse, viene invece negata alla madre. Infine, con la sentenza che tiene luogo del consenso mancante, il Giudice può adottare tutti quei provvedimenti che ritiene opportuni in relazione all’affidamento, al mantenimento e al cognome del minore’. Perché in seguito al riconoscimento da parte del padre persino il cognome del figlio può variare con l’aggiunta del patronimico o, nel peggiore dei casi, addirittura la sostituzione del matronimico. Il Legislatore trascura così il ruolo e le responsabilità del padre che non ha voluto riconoscere alla nascita un figlio, preoccupandosi solo di regolarne i diritti al momento del ripensamento. Paradossalmente, per effetto dell’articolo 250 c.c., anche un uomo che abbia apertamente con fatti e parole espresso il desiderio di sopprimere la vita di suo figlio andando contro la volontà della madre gestante, cercando in vario modo di condizionarla o convincerla ad abortire, facendole mancare l’appoggio morale e materiale durante la gravidanza, ha sempre integre e intatte tutte le possibilità di rientrare nella vita familiare del figlio. Il suo diritto alla paternità si impone sul rispetto dell’integrità e dignità del bambino, mentre i diritti della madre vengono definitivamente compressi per affermare un privilegio paterno, arrivando spesso, in virtù della legge 54/2006 che impone la bigenitorialità a conclusioni paradossali in cui un uomo che si è disinteressato della gravidanza, della nascita e della crescita del bambino può addirittura ottenere dal Tribunale l’inversione del collocamento del minore o la sua reclusione in una ‘struttura”.
LA LEGGE DISCRIMINA TRA MADRE E PADRE – Denuncia il Comitato: “Una madre che si oppone al riconoscimento del secondo genitore è per forza di cose una madre ostativa, malevola, alienante- come emerso in alcuni casi di cronaca- alla quale può essere imputata la mancanza di un legame positivo tra suo figlio e il novello padre. In Francia, come in Italia, è praticamente impossibile che l’opposizione di una madre al riconoscimento tardivo di un figlio non sia superata in un percorso giudiziale intentato da un ex partner. Il caso di Jade è piuttosto emblematico. Rimasta incinta in seguito alla violenza sessuale subita da parte del suo ex compagno, Jade è costretta a depositare più di una denuncia contro l’uomo senza essere creduta. Le querele della donna vengono infatti archiviate e l’ex compagno ottiene dal Giudice il riconoscimento della figlia, l’affidamento condiviso e l’inversione del collocamento della bambina. Per il Tribunale civile francese, che condanna anche la donna a 10000 euro di spese, le denunce non hanno trovato riscontro penale e pertanto non possono essere considerate ostative all’esercizio della responsabilità genitoriale da parte dell’uomo, con conseguente limitazione di quella della donna per la quale viene invece predisposto un calendario di visite, privando così la bambina di una madre con la quale è cresciuta per dieci anni. Jade non si arrende e continua a battersi per la tutela di sua figlia messa in pericolo da una legislazione che occulta nella maggior parte dei casi la violenza maschile in favore di una bigenitorialità coatta”.
Perchè il legislatore declina l’interesse del minore a subire più che a beneficiare di un secondo riconoscimento? “Nel nostro Paese, fino all’intervento della Corte Costituzionale 341/1991, si riteneva che l’interesse del minore fosse strettamente ancorato alla ricerca della paternità biologica con la conseguenza che l’accertamento del rapporto di filiazione rappresentava una risposta fisiologica al bisogno psicoaffettivo di avere un padre, all’utilità di essere individuato e conosciuto come figlio di una persona certa di cui assumere il cognome; il che si traduceva nell’esistenza di una presunzione assoluta di corrispondenza dell’accertamento all’interesse del minore. In seguito la Corte, introducendo il principio della valutazione giudiziale dell’interesse del minore infrasedicenne, ha portato la giurisprudenza immediatamente successiva ad attestarsi su di una presunzione relativa ispirata al presumibile interesse del minore, salva la prova dell’esistenza di una condotta del genitore assai pregiudizievole tale da dar luogo alla decadenza dalla potestà parentale. Tuttavia, in caso di riconoscimento paterno, persino l’interesse del minore può subire delle indebite compressioni se, come è vero, la legge prevede che non possa ‘di regola essere escluso dalle normali difficoltà di adattamento psicologico al nuovo status, essendo queste normalmente connesse al riconoscimento da parte del genitore naturale quando intervengono a distanza di tempo dalla nascita del minore’. Di fatto l’interesse del minore può tranquillamente soccombere o comunque non costituire un pregiudizio all’esercizio di una responsabilità genitoriale. Il minore deve adattarsi alla sua nuova condizione”.
L’APPELLO DELLE MAMME ALLA POLITICA – “La sproporzione tra le norme che regolano i rapporti di madre e padre col nascituro e la pregiudizievole applicazione delle stesse da parte dei Tribunali costituiscono una forma di discriminazione di genere- conclude il Comitato- retaggio di una cultura giuridica fortemente improntata a tutelare il potere maschile ma che, ancora oggi, su alcuni temi sensibili come questo, segna il passo e necessita di un adeguamento ai valori costituzionalmente garantiti”.
Clara Angelica Palumbo